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Diamo in pasto l’animale a quelle belve ancor più feroci: diamo in pasto l’attore alla voracità del pubblico. In effetti se gli spettatori fossero davvero voraci, oggi, l’attore sarebbe ancor più felice, ma questa morte e questa vita da palcoscenico decadono in un’ arida solitudine che si risveglia, ogni giorno, in una vita più florida. Alessandra Fabbri si presenta così, attrice ed animale da palcoscenico insieme, presso la Sala Assoli di Napoli, teatro che, in occasione del suo trentennale di attività, rivede in scena numerosi lavori, registi ed artisti che hanno segnato la sua storia, attraverso un ricchissimo programma che si estende da settembre a gennaio. Anche Davide Iodice ritorna a Sala Assoli con questo suo “poemetto fisico”, come lui stesso lo definisce, in cui il senso dell’attorialità viene messo a nudo e rappresentato

attraverso metafora, quella più comune dell’animale da palcoscenico, ma al cui senso cruciale si arriva dopo un percorso mistico. La produzione di Interno5 presenta uno spettacolo di teatro/danza in cui anche lo spettatore poco avvezzo al genere è attento alla narrazione: drammaturgia e corporeità si fondono, infatti, in un “saggio” visivo e sensoriale di grande poesia ed eleganza. Elementi, questi, che caratterizzano fortemente il percorso scenico di Iodice e che immancabili ritornano sul palcoscenico, accanto ai suoi personaggi e alle sue storie. La semplicità della scena è firmata palesemente dall’occhio inconfondibile di questo regista: dal secchio in un angolo, illuminato dall’alto, ad un semplice specchio poggiato per terra, in proscenio, ricoperto da arbusti, anch’esso illuminato dall’alto, insieme ad altri secchi, all’acqua, all’argilla, al cerone, agli abiti, al corpo. Gli elementi della natura si mescolano a quelli dell’attività della “bestia” da palcoscenico, in una sorta di epifania alla vita, e alla morte, che ogni volta spinge l’attore a rinascere ancora. La purezza e la semplicità della storia della ragazzina che vive in campagna, tra gli animali, tra i suoi pappagallini, di cui uno rimasto solo e tenuto in vita grazia all’escamotage dello specchio che riflette la sua immagine – ma che poco aiuta a sconfiggere la sua solitudine – diventa un mondo dalle mille sfaccettature quando il pubblico si rende conto che bambina e attrice incarnano la stessa natura. L’innocenza di un animo che vuole essere partecipe della vita e della morte è metafora del mondo intero posta sulle tavole del palcoscenico.  Il titolo MANGIARE E BERE. LETAME E MORTE racchiude il senso della vita stessa, delle azioni e degli elementi più semplici della nostra esistenza. L’attore si ciba del palcoscenico e della sua stessa natura attoriale, ritrovandosi invischiato nel letame della solitudine che lo costringe ad una morte lenta e ad una rinascita quotidiana. La solitudine, infatti, pervade il racconto, attraverso l’angosciosa richiesta di applausi che trasforma l’attrice in una foca da circo che chiede il pesce.  L’argilla ricopre il volto, come il cerone, ma riproduce un naso da Pulcinella o da maschera veneziana, e diventa anche fallo poggiato sul pube dell’attrice nuda, simbolo della vestizione, del travestimento, dell’interpretazione, della trasformazione, a tutti i costi. Mai volgare, nonostante alcuni momenti di nudità, l’interpretazione della Fabbri è “sussurrata” nelle orecchie degli spettatori, accompagnata da un’emozionante colonna sonora. Dal sorriso e dall’ironia si passa ad una costante ombra di malinconia e di solitudine che culmina nella telefonata ad un ipotetico spettatore mai arrivato: il dolore profondo pervade la platea attraverso il silenzio, immergendo gli spettatori nel baratro oscuro e vischioso di un’attesa mai esaudita. L’interazione con il pubblico caratterizza alcuni momenti della performance, fino a quando la ricerca di uno spettatore, o di una spettatrice, vede la Fabbri condurre per mano una persona dalla platea fin dentro la scena. L’attenzione della scelta sembra reverenziale, dimostrando il grande rispetto dell’animale da palcoscenico nei confronti dei suoi “uccisori”. La scena conclusiva dimostra, ancora una volta, la grande poesia del tocco registico di Iodice. Un po’ di gel, qualche piuma: lo spettatore diventa pappagallino, quello della storia narrata all’inizio, e danza con l’attrice, in una ballo di vita e di morte. I due antipodi apparenti si uniscono su un unico palcoscenico. L’animale-attore non potrebbe vivere senza l’applauso, senza l’esibizionismo, senza comunicare costantemente il proprio dolore e la propria gioia al mondo intero, cioè al pubblico. La sua vita dipende dalla presenza.
Foto di Valeria Tomasulo

MANGIARE E BERE. LETAME E MORTE
SALA ASSOLI NAPOLI
2- 4 OTTOBRE 2015
Mangiare e bere. Letame e morte
Produzione Interno5
Regia Davide Iodice
Con Alessandra Fabbri