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«Il valore non serve a nulla, la sorte domina su tutto e i più coraggiosi, spesso cadono per mano dei codardi» Questa frase di Tacito esprime in sintesi il lavoro drammaturgico che Francesca Garolla compie nell’ultimo testo della sua trilogia (“SOLO DI ME. Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea”; “NN Figli di nessuno” sono le precedenti tappe del suo percorso) Una riflessione sulla morte in una società che inconsciamente tiene lontano dal proprio vissuto la vecchia, la malattia, la morte. La caducità umana. Il testo prende spunto da un fatto realmente accaduto. Il 29 maggio 1993 un convoglio di aiuti umanitari diretto alle città

di Vitez e Zavidovići - Ex Jugoslavia, Bosnia Erzegovna - viene assalito da una banda militare. Tre persone vengono uccise, due si salvano correndo verso il bosco. «Una delle tre vittime era mio zio- racconta l’autrice- ed io avevo meno di dodici anni quando è morto. La sua morte consiste in frammenti di ricordi. Quello che si sa è solo che non cercò di scappare, i suoi compagni iniziarono a correre e lui rimase fermo, immobile, colpito da tre pallottole a bruciapelo. Lo ritrovarono un paio di giorni dopo, esattamente dove doveva essere, ma senza le scarpe. La morte, che non ci tiene alle formalità, lo aveva lasciato scalzo. Ridicolo.
Una delle sue sorelle raccontava ai funerali di averlo sognato e in sogno lui diceva: Bastava che gli altri non si mettessero a correre e sarebbe andato tutto bene...Semplicemente non dovevano mettersi a correre.» Ma è proprio così? Vittime della guerra, della vita, o della sfortuna?
Che ne è stato della morte eroica che cantano gli antichi? Che cosa significa dare un senso al lutto? In che modo una morte ci appare più significativa, per non dire giusta o accettabile, di un’altra? Il testo parte da questi interrogativi, dal significato della morte per l’uomo. Due monologhi scorrono parallelamente, due punti di vista che si completano a vicenda: quello di un uomo e di una donna, figure quasi irreali, personaggi usciti dalle pagine dell’Amleto; si domandano perché sia accaduto l’inevitabile; la donna conserva articoli di giornale riguardanti quel massacro perché è ossessionata dalla stupidità con cui sono morti quegli uomini. L’uomo riflette sull’unica morte che ha vissuto da vicino, quello di un pesciolino rosso. Entrambe figure della nostra contemporaneità l’ossessione paranoica e l’anaffettività emotiva, entrambe specchio di un nostro malessere quotidiano: non voler riflettere realmente sulla morte e sull’assenza. Lui e Lei, in bianco e nero, come i divani del loro soggiorno, condividono lo stesso spazio scenico senza mai dialogare tra loro, raccontano tempi e luoghi diversi, solo nel finale emerge il legame che li unisce.  Due monologhi che lentamente si affiancano svelando il significato profondo dell’essere e del non essere.... Come Amleto entrambi cercano una verità, una spiegazione a ciò che è successo, corrono o non corrono, alla ricerca di un perché che non trovano. Elena Ghiaurov e Milutin Dapčevic rendono con bravura questa forma di narrazione drammaturgica fatta di riflessioni, dubbi, incertezze come solo la morte, unica certezza per l’uomo provoca nell’umanità.
La regia di Renzo Martinelli affronta il testo poetico e filosofico dell’autrice, attraverso successioni sceniche ritmiche e sonore: tempi brevi e lunghi, tempi di pausa e di suoni, rapidità e lentezza, opposti che si attraggono come le riflessioni dei due personaggi, la regia lavora sul discontinuo creando momenti di estraneità: il tempo si interrompe con la morte e la stessa cosa avviene in scena. Il tempo della finzione apre brecce continue nella narrazione, per indurre lo spettatore a chiedersi come è potuto accadere tutto quell’orrore nel tempo reale. Le grandi didascalie sceniche creano un effetto di straniamento e di distacco che motiva ogni riflessione. Il regista mostra l‘eterogeneo del reale rompendo la successione della fabula teatrale. E’ lo stesso effetto che si ottiene con i cantastorie di una volta che interrompevano il racconto rivolgendosi al pubblico riflettendo con lui, per indurlo a momenti di conoscenza e di approfondimento ulteriori. Le regie di Renzo Martinelli mostrano una vocazione pedagogica che è poi una forma d’amore per gli altri, quelli in scena, quelli oltre la scena.