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Si è inaugurata mercoledì 14 ottobre, alla sala Trionfo, la stagione del Teatro della Tosse di Genova, con il terzo e dunque ultimo capitolo della trilogia sul potere di Emanuele Conte.
Dopo “Antigone” di Anouilh e “Caligola” di Camus, Emanuele Conte affronta dunque un testo antico e pieno di corrispondenze estetiche, quella tragedia eschilea che va al fondo primigenio del senso e della legittimazione che ogni potere insegue attraverso il rapporto con Dio o la sua rappresentazione, e dunque, non se lo nasconde il drammaturgo, anche di una delle sue figure surrogate, il padre cioè, da cui la suggestione del titolo dalla doppia lettura (Prometeo e Dio ovvero Prometeo ed io).
La efficace riscrittura di Conte in effetti conserva integralmente la forza arcaica e strutturante del racconto mitico e del testo tragico, ma nel contempo la anima o rianima con appropriato movimento drammaturgico, riuscendo in un certo senso a ripristinare la narrazione in quello racchiusa, quasi incatenata

come il suo protagonista Prometeo.
Nel ciclo della “ribellione al potere”, che appare come il senso ultimo della trilogia, la tragedia della prigionia diventa così una peripezia di liberazione che smaschera l’ottusità di un potere privo di qualsiasi “visione” e terrorizzato alla sola idea di venire meno.
La fedeltà alla narrazione si accompagna così alla sua riattivazione e alla sua riapertura di senso, riarticolando con efficacia nello spazio scenico e nei tempi e nei movimenti, sempre puntuali e spontanei, della recitazione i vari livelli di significazione quasi traslati dall’altrove mitico al presente contemporaneo.
Attorno al Titano incatenato quasi oltre il palcoscenico, incombente dalla struttura metallica che ne cinge e definisce lo spazio, si alternano così sui quattro livelli della scenografia i personaggi del mito e della tragedia ciascuno trascinando con sé, ed è un altro dei pregi di questa riscrittura, una precisa indicazione di senso, quasi sbocciasse sulle rocce nude di quel monte perduto.
Da Cratos e Oceano con il coro delle sue oceanine, da Efesto a Io simbolo vivente di una umanità dominata dalla violenza e dalla paura di un Dio senza misericordia, ad Hermes che di Zeus appare il servitore intelligente, l’intellettuale organicamente asservito che tante scene calca di questo nostro paese. Con straordinaria contemporaneità lo traccia già il tragico antico nelle parole di Prometeo: “Ma chi vedo: ecco il portaordini del nuovo tiranno.”. Hermes che con servilismo subdolo tenta di carpire a Prometeo il segreto del futuro e non riuscendovi esplode in cieca violenza.
Solo nella conclusione, e coerentemente, Emanuele Conte tradisce la sua fedeltà narrativa ad Eschilo, quando Prometeo non è gettato nelle profondità della terra ma sceglie e, liberandosi dalle catene, sceglie l’uomo, imperfetto, fragile e mortale, ma che proprio per il fuoco, e la conoscenza che insieme a quello gli ha donato, è libero di determinarsi, mentre gli dei cui apparteneva pagano la propria immortalità con la schiavitù di non potere scegliere di essere altro da quello che sono.
Una variante che sigilla insieme l’adesione che è amore per il testo con la capacità del drammaturgo di restituircelo nella pienezza di una significato a noi più vicino. È la forza di un mito arcaico che ancora riesce a scardinare le finte certezze di una società dominata dal potere dal denaro e dalle maschere che incessantemente produce.
Una riscrittura che ricorda Sanguineti nella capacità di recuperare il senso autentico talora nascosto e perduto nella parola moderna, ricomponendola e liberandola anche sintatticamente. La fedeltà intesa come tradimento dell’apparenza, perché, scriveva appunto Sanguineti (sulla traduzione) “Qualcuno, questo è l’essenziale, si esprime mistificandosi, e mistificandoci, in persona aliena. Ogni traduttore, il falso come il vero, trasponga da altra lingua o simuli di trasporre, opera, in qualunque caso, adottando, quale sua insostituibile impresa, il motto illustre del larvatus prodeo”.
Prometeo è il bravissimo Gianmaria Martini, già apprezzato in “Caligola”, che ricompone anche fisicamente sofferenze e slanci del titano imprigionato. Attorno a lui, con recitazione sempre efficace, gli altrettanto bravi Alessia Pellegrino (Bia e Io), Enrico Campanati (Ermes), Andrea di Casa (Efesto e coro delle Oceanine), Pietro Fabbri (Cratos e Oceano). I costumi, singolari e appropriati come nella tradizione del teatro, sono di Daniela De Blasio, le luci di Tiziano Scali e Matteo Selis, mentre un complimento merita l’intero staff tecnico.
La nuova produzione del teatro della Tosse ha avuto, come meritava, una accoglienza talora entusiasta dal pubblico numeroso e composito della prima.

Foto Donato Acquaro