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In passato erano saggi portatori di verità profonde sulle cose. Poi la nostra società li ha trasformati in uomini al tramonto, nel pieno del decadimento psico-fisico. I vecchi. Eppure nessuno pare voler mai chiedere loro come stiano davvero le cose, come si veda il mondo dalla cima dei decenni trascorsi ad affrontare la vita. James Hillman, compianto genio della psicanalisi junghiana, ha dedicato un testo memorabile a questo argomento, “La forza del carattere”, pubblicato poco più di quindici anni fa. A questa prospettiva si è ispirato Nicola Russo, autore e regista di “Vecchi per niente”, in scena al Teatro Franco Parenti di Milano (via Pier Lombardo 14) fino al 1 novembre. «Così come il carattere guida l’invecchiamento, l’invecchiamento disvela il carattere», scrive Hillman. Così, la giovinezza è il momento in cui l’uomo scopre la sua

strada e la sua natura, sotto la guida del daimon, una sorta di demone buono che ci desta alla ricerca di noi stessi. Alla vecchiaia spetta il compito di lasciar spazio al carattere affinché si compia e si rappresenti, delineando l’immagine di noi che resterà dopo di noi.
Su queste suggestioni, Russo costruisce un testo potente e vigoroso, puro teatro di parola che sa tuttavia porre in dialogo la parola col gesto, quello simbolico, chiarificatore, non superfluo. Diversi anziani si alternano sulla scena rappresentando se stessi ora dal punto di vista dei giovani – che li vedono deformati nel corpo dalla vecchiaia -  ora dagli occhi della propria anima. Ne nasce un gioco delle parti in cui la complessità dell’esistere e dell’invecchiare mostra tutta se stessa. Quando allo sguardo degli altri sussiste solo un corpo malconcio, nell’animo si susseguono ricordi, idiosincrasie, bagliori di passato che illuminano di senso il presente. Fastidi, ambizioni, spigoli e saggezze profonde sono un susseguirsi incessante che sa rendere con maestria quel caleidoscopio imprendibile che è l’anima umana. Eccolo il carattere, quel carattere così chiaro eppure indefinibile perché chiunque provi a incastrarlo negli aggettivi e nelle costruzioni del linguaggio si ritrova incagliato nel proprio di carattere. E allora quella giovane bellissima con tanti amanti cercava l’amore – dice lei stessa il giorno del suo funerale mentre osserva i presenti al suo capezzale – oppure era una donna leggera e di scarsa affidabilità, mormorano un paio di raggrinziti ex amanti. Una badante mormora accanto al letto di une vegliarda che digrigna i denti, chiusa nel suo languore malinconico, mentre la vita fibrilla nel cuore virile di chi scopre che ogni decennio che passa porta un mondo nuovo insieme a sé.
La scena è un alternarsi di luci radenti ed essenzialità ipertrofica. Un panno verde colora lo sfondo e si protrae avanti sulla scena, uno spazio dell’anima che indaga se stessa nel silenzio dell’esistenza, quel silenzio che nessuna musica, nessuna chiacchiera, nessun divertissement può riuscire a rompere. E’ il silenzio in cui si compie la nostra anima e si realizza la nostra natura.
Convincenti e bravissimi gli interpreti, in bilico tra narrazione di sé e profezia destinata a una generazione che si interroga sul senso dell’invecchiare. Benedetta Barzini, Sara Borsarelli, Teresa Piergentili, Marco Quaglia, Agostino Tazzini, Guido Tonetti sanno raccontare una storia, un po’ della loro storia, condividono con il pubblico quel carattere cui la pièce è dedicata e a cui forse solo al volger dei decenni dell’esistenza ci è davvero concesso di poter rivolgere il nostro sguardo indagatore. Meraviglioso!

Foto Fabio Artese