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"Il ritorno al teatro di parola nel senso più alto del termine, come lingua, significato, appartenenza, sarà al più presto necessario". E' questa dichiarazione di Luca Ronconi  che apriva il documentario presentato dopo la messa in onda televisiva di Lehman Trilogy, che mi ha fatto venire l'idea.  L'idea di cedere la parola ai suoi attori, e non solo, dedicando una serie di  interviste al teatro di parola.  Un teatro che è paradossalmente diventato di nicchia, al punto da indurre il  maestro a parlare di 'ritorno', ma tanto più necessario in un momento in cui la parola è accantonata e maltrattata, ridotta a chiacchiera, slang, soliloquio compulsivo. Necessario come lo sono i rapporti

tra gli individui; come lo è la lingua, nei suoi colori e nei suoi costrutti grammaticali e sintattici; come lo è il linguaggio, privilegiato strumento di comprensione e di accesso al mondo; come lo è parola, quando è coccolata e accudita, fatta  di suoni, timbri, intonazioni.  Saranno queste le idee guida, un po' faziose, forse, ma ancora di più faziosamente perseguite.
La prima intervista è a Massimo Popolizio, un attore che ha trovato nel solco del teatro di parola una cifra propria di verità e libertà interpretativa, che gli permette di muoversi dai classici greci e latini alla tragedia shakespeariana al dramma moderno.
"Grazie per non avere fatto uno spettacolo con gli uomini sui tacchi a spillo". Una spettatrice fuori dal camerino di Massimo Popolizio si complimenta e ringrazia dopo avere assistito a Il prezzo di Arthur Miller, di cui l'attore è anche regista.

Siamo al Teatro Argentina di Roma dove lo spettacolo, prodotto dalla compagnia Umberto Orsini, sarà in scena fino a domenica 8 novembre, prima di una tournée che toccherà tutta Italia, e io mi trovo lì per concordare questa intervista, la prima di una serie sul teatro di parola.

1) Popolizio, in questa epoca di performativo spinto voi rischiate di sembrare animali in via di estinzione.

R- Infatti, rispetto a certi cliché ormai usurati gli spettacoli di teatro di parola sembrano spettacoli di avanguardia. E invece c'è una forte domanda da parte del pubblico. Ma è un paradosso tutto italiano.

2) Da cosa dipende?

R) Dal fatto che i nostri teatri guardano non tanto alle programmazioni dei teatri degli altri paesi europei ma a quello che succede nei festival dei teatri europei, dove si rincorre un teatro da performance, scadente, che si basa sugli effetti scenici, su basi musicali a tutto volume, su cliché ripetuti fino alla noia, che non stupiscono più. Oggi stupisce di più vedere due attori che parlano.

3) Il ritorno al teatro di parola nel modo più alto del termine, come lingua, significato, appartenenza, sarà al più presto necessario. Sono parole di Luca Ronconi, il tuo maestro.

R) Il teatro di parola è necessario perché si basa sui rapporti, sulle relazioni, che sono dinamiche, ricche di sfumature, e la parola rende loro giustizia. La stessa frase detta in un modo o detta in un altro acquista un significato diverso. Allungando una 'a' o stringendo una 'o', mettendo una virgola, i due punti, un punto esclamativo, posso fare capire cose diverse. Si può, per esempio, dire 'ti amo' facendoti capire che non ne posso più di te. Si può fare, è un fatto linguistico, legato alla nostra lingua.

4) Ascoltandoti leggere e interpretare, anche al leggio, si ha l'impressione che le parole si alzino, si sollevino dalla pagina verso una terza dimensione. Ma da dentro, senza artifici ed effetti posticci, falsetti, soffiati nel microfono. Cosa pensi

della ricerca di effetti attraverso il microfono?

R) Io lavorato con jazzisti come Uri Caine, Fabrizio Bosso, Enrico Rava e in quei casi il microfono era un mezzo per raccontare il ritmo e la musicalità. Non ho nulla in contrario a che il teatro sia aperto ai mezzi tecnologici: è quando il mezzo tecnologico è fine a se stesso che fa sorridere.

5) Tornando alle parole, come si alzano in 3D?

R) Da Ronconi ho imparato che tutto ciò che è presente in scena è frutto di un montaggio, e può riguardare due righe, quattro parole e certe volte anche una parola sola. E' il montaggio che dà senso a quello che dici. Io non credo ai processi che partono dall'interno, per cui si deve sentire o pensare prima di parlare. Credo invece che a volte sia utile sentire come si parla intorno a noi e riportarlo in scena.

6) Non alluderai al minimalismo?

R) No, anzi, il minimalismo è generico, il buttare via le parole facendo finta di non recitare, è frutto di un equivoco, di una convenzione che io chiamo teatrese. Come se registrassimo questa conversazione e la mettessimo in scena. E' il montaggio, invece, che fa la differenza.

7) Che rapporto c'è tra pensiero e linguaggio?

R) Anche qui bisogna sfatare un equivoco di fondo: che si debba pensare prima di parlare. Molto spesso infatti si parla senza pensare e anche in teatro non deve essere diverso. Se devo cambiare due, cinque, sette intonazioni, non devo pensare prima di cambiarle: devo cambiarle e basta. All'interno di Lehman Trilogy si riuscivano a cambiare trenta intonazioni in sette righe e c'era una guida molto precisa da parte di Ronconi, un alfabeto e dei codici che io conosco molto bene.

8) Anche la costruzione del personaggio è un equivoco ?

R) No. A volte dobbiamo costruire un personaggio, a volte dobbiamo fare delle figure. Rispetto alla figura il personaggio è più complesso, sfaccettato. Ma la figura è precedente, si impone subito, è l'immagine che porti in scena, lo spirito con cui stai entrando, chi ti immagini di essere. E non puoi essere un personaggio se prima non hai in mente una figura. Ronconi diceva: "Prima di fare una parte immagina qualcun altro che la fa. Abbi un riferimento, anche lontano da te". Un certo attore americano di un vecchio film, un parente: il suo modo di camminare, di guardare, di muovere le mani. Poi è chiaro che non lo farai allo stesso modo, ma hai un modello che non è fatto solo di indicazioni teoriche ma ha una solidità.

9) Mi sento più libero nel verso: te l'ho sentito dire più volte. E penso in particolare alle letture interpretate al leggìo dei poemi omerici e dell'Eneide.

R) E' vero. I versi ti mettono dei paletti ritmici e di cadenza che ti proteggono ma all'interno dei quali sei libero. Ma la stessa cosa succede in palcoscenico quando nella recitazione segui una griglia: non è che all'interno non sia possibile un cambiamento- di temperatura, di ritmo, di partecipazione eccetera- ma se mantieni quella griglia sei contemporaneamente protetto e libero di inventare. La griglia è una specie di spartito e se si rispetta ti permette di fare lo spettacolo in qualunque condizione, anche con la febbre a quaranta. E' uno dei primi insegnamenti che ho ricevuto da Ronconi, e risale a Santa Giovanna di George Bernard Shaw con Adriana Asti, il mio primo spettacolo con lui, quando avevo poco più di vent'anni. Non esiste solo questo modo di lavorare ma io sono cresciuto con questa impostazione.

10) Si può parlare di strutturalismo?

R) Sì, però attenzione, perché l'approccio è strutturale ma il risultato è un fatto umano. In scena non vediamo delle macchine, vediamo delle relazioni. E la griglia non è solo esterna, la griglia è anche emotiva.

11) A proposito, esiste la memoria emotiva?

R) Esiste un archivio di emozioni a cui attingere, ma il teatro che ti fa vedere quanto ti crogioli bene ha fatto il suo tempo. Ci sono invece dei 'cassetti' delle emozioni assimilabili ai cassetti vocali per i cantanti, che sanno che se dovono intonare un 'do' devono aprire quel determinato cassetto. Così un attore deve sapere in quali cassetti risiedono le diverse emozioni e deve essere capace di aprirli e cambiarli a comando: anche velocemente, se necessario. Gli attori da cui imparare sono i russi, che riescono a passare dall'euforia alla disperazione in pochi secondi, e sono sempre credibili.

12) Molte regie di Ronconi mettevano in scena romanzi, o comunque prevedevano la recitazione in terza persona. Penso per esempio ai Karamazov, al Pasticciaccio e al recente Lehman Trilogy. Cosa comporta per un attore recitare in terza persona?

R) E' una bella scorciatoia e ti lascia una grande libertà perché si può interpretare parlando di sé. Se dici per esempio 'Il signor Valdarena si è posato sul divano' puoi metterci dentro la stanchezza di chi si è posato sul divano e puoi dire, magari, che non avrebbe voluto posarsi sul divano. Molto spesso si comincia in terza persona e si termina in prima e questo montaggio-perché sempre di montaggio si tratta- rende curiosamente molto chiaro il racconto. Mi sono trovato spesso a mettere in scena libri e testi non drammaturgici e ho scoperto che possono essere molto teatrali e godibili.

13) Infatti sono tue anche le letture di molti romanzi, in audiolibro e in radio. Penso a Il maestro e Margherita, La morte a Venezia, I vecchi e i giovani, Ragazzi di vita (del romanzo di Pasolini curerà la regia per il Teatro Di Roma, nell'autunno 2016). Ecco, anche in questi casi, si alzano le parole.

R) Il mio divertimento è immaginare un film sonoro e la mia utopia far calare gli ascoltatori nelle situazioni narrate, fargli vedere il mare, una stanza, un paesaggio. La mia voce è un mezzo che non deve servire semplicemente a rendere a voce alta quello che c'è scritto in un libro, ma ad aprire delle immagini che attraverso l'orecchio arrivino al cervello. In questo caso il montaggio dovrà tenere conto del fatto che c'è solo il sonoro e dare a quello che si legge una dinamica fatta di ritmi, velocità, musicalità, che permettano, tra l'altro, allontanamenti e restringimenti di campo. Così il testo diventerà un'operina con i suoi alti, i suoi bassi, gli allegri, gli adagio, i rallentamenti eccetera.

14) Vedendoti recitare sembra che tu non faccia nessuna fatica, e che anche questo montaggio di cui ci hai parlato, ti venga naturale.

R) Non è così: recitare non mi è mai venuto naturale e più vado avanti più sento la responsabilità di andare in scena e ho paura. Recitare per me è anche sapere gestire la paura. E studio molto di più adesso di quando ero ragazzo. Mi preparo molto anche sulle letture perché se il risultato è generico non mi sopporto e non mi piaccio. Ogni volta che vado in scena o mi preparo per uno spettacolo, eleggo un giudice che mi tenga alta l'asticella.

15) Ronconi?

R) Sì ma anche altri. Cambia a seconda delle cose che faccio. Avere lavorato con Ronconi significa anche avere lavorato con i più grandi attori di teatro, Annamaria Guarnieri, Valeria Moriconi, Mariangela Melato, Umberto Orsini, Massimo De Francovich, Corrado Pani, Paolo Graziosi, Franco Branciaroli. Li ho visti risolvere problemi iperbolici senza rendermene conto perché quando sei implicato, sei teso e concentrato su te stesso, ma la memoria ritorna piano piano e ora se rivado a un testo affrontato allora mi si apre una fisarmonica di soluzioni e possibilità.

16) Come affronti i momenti di crisi, sia come attore sia come regista?

R) Prima di andare a dormire ripasso tutto quello che ho fatto e se mi si presentano davanti degli scogli, dei nodi da sciogliere, rifaccio mentalmente il percorso che mi ha portato lì. Se so che una certa cosa è sbagliata, se la individuo, dormo meglio. Anni di Ronconi mi sono serviti anche a capire che tutto inevitabilmente nasce dal superamento di una crisi. E solo mettendomi in crisi riesco a lavorare perché la crisi mi impone di superarla. Come regista cerco di costruire sulle crisi degli altri: piano piano, ma non ci vado liscio.

17) Con trentacinque spettacoli sei forse l'attore che con Ronconi ha lavorato di più. Un'elezione anche la sua?

R) Mah, non è mai stato facile. E i cavalli che mi ha dato cavalcare fin da ragazzo - Ruy Blas, Edgar, Hinkfuss, Peer Gynt- me li sono sempre dovuti guadagnare. Anche alle prove dovevi dare il massimo perché se la parte non era al massimo non riusciva a montare il resto. Giustamente, perché il suo era un gioco sul serio. Ma tutte le indicazioni che ci dava erano sempre organiche, frutto di un respiro, di una situazione, di un risultato concreto, non teorico. Ci sono due categorie di registi: quelli che ti mostrano la parte e quelli che ne parlano. Ronconi, come Strehler, apparteneva alla prima. Loro stavano sul palcoscenico e ti facevano vedere cosa succedeva, poi toccava a te capire da dove partivano le loro indicazioni per non copiarli.

18) Immagino che tu abbia fatto la stessa cosa nel dirigere Il prezzo, in cui sei anche in scena dall'inizio alla fine. E' stato difficile dirigere e interpretare ad un tempo?

R) Ho lavorato con un doppio che mi ha aiutato a montare per cui potevo vedere dalla platea le geometrie sceniche. E ho capito che per dirigere ed essere contemporaneamente in scena bisogna lavorare con attori che parlano la tua stessa lingua teatrale.

19) Non capita spesso.

R) No. Gli attori sono persone fragili perché non abbiamo più un teatro che ci accomuna, dal quale dipendiamo e nel quale riconoscerci. Ognuno arriva da una scuola diversa, ognuno intende un aggettivo in modo diverso. E' un problema che non hanno i tedeschi, gli inglesi, i russi. Per loro recitare significa una cosa, per noi tutto e il contrario di tutto. La performance, la rappresentazione del dolore, e poi ci sono gli attori che non si smuovono da sé e dall'immagine che hanno di sé.

20) Così si chiarisce meglio la frase di Ronconi citata all'inizio: un ritorno al teatro di parola come appartenenza è necessario. Ma da dove comincia la risalita?

R) Dagli attori e dalle relazioni. Mettere insieme gli attori è l'unico modo, oggi, di fare regia. Poi ci sono altre forme di espressione, molto specifiche, che hanno certamente un pubblico proprio, ma non hanno niente a che vedere con il teatro di prosa. Che è gioco di squadra, dialoghi, rapporti scenici tra individui diversi.

Il cerchio si è chiuso, le luci di sala del teatro Argentina si sono abbassate. Gli attori sono chiamati ai loro camerini. Tra un'ora si comincia.
Va in scena Il prezzo di Arthur Miller, una pièce del 1968 riscoperta da Orsini durante una trasferta londinese e appena tradotta per Einaudi da Masolino D'Amico.
Si racconta l'America dopo il crollo del '29 a partire dalle relazioni di una famiglia borghese: relazioni incattivite e stanche, ma relazioni.
Con Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Alvia Reale, Elia Schilton.