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Oggi è il 14 novembre 2015 e questo pezzo è pronto da un po'. Ma chissà perché, aspetto a mandarlo, non è urgente, lo spettacolo di cui scrivo è andato in scena il mese scorso. Una ripresa ci sarà, ma le date non ancora. Non c'è fretta. Lo faremo uscire a ridosso che ha più senso. Poi succede che a Parigi. Ieri. Allora questi attentati rivolti a gente comune, inerme, senza nemmeno conoscerne il volto, gente tranquilla, non sovversivi, gente che faceva la spesa, innaffiava il giardino, camminava per strada, tornano a imporsi con maledette connessioni.

Accanto a una delle vittime dei beltway sniper attacks è stata ritrovata una carta dei tarocchi con su scritto 'call me God'. Il che significa: morte violenta, esoterismo e fanatismo in un sol colpo.

Che come ingredienti e sollecitazioni di scrittura non sono male.
Tant'è che agli attentati dei cecchini della circonvallazione, avvenuti nel 2002 tra la Virginia, il Maryland e Washington, è stata dedicata una curiosa operazione di drammaturgia polivocale firmata da Gian Maria Cervo, Marius von Mayenburg, Albert Ostermaier e Rafael Spregelburd. Italia, Germania, Argentina per quattro punti di vista su fatti recenti di storia americana che solo americana non è, a cominciare dai due attentatori arrestati, uno di nazionalità afroamericana e l'altro di origini giamaicane. Passando per tutta una serie di connessioni e interconnessioni più o meno esplicite, che se non evidenziano coinvolgimenti diretti, indicano che le morti di quei dieci (e forse più) cittadini inermi non sono così prive di collegamenti come invece era sembrato in un primo tempo.
In questo spazio tra realtà e immaginazione si sono immessi i quattro autori che hanno prodotto un testo composito, modulare, scritto autonomamente in seno a un progetto di residenza drammaturgica presso il Residenz Theater di Monaco di Baviera, dove lo spettacolo, nella sua versione tedesca, ha iniziato il suo quarto anno di repliche, dopo essere passato per il Deutsches Theater di Berlino, il Museumsquartier di Vienna, il centro Mejerchol'd di Mosca.
Nella versione italiana ha invece debuttato a Viterbo per il Festival Quartieri dell'Arte il 18 e 19 ottobre 2015 per la regia di Alessandro Machia, con Alessia Giangiuliani, Monica Nappo Kelli, Mauro Racanati e Nicola Nocella più tre allievi del centro sperimentale di cinematografia (Ester Pantano, Daniele Mariani, Alberto Paradossi).
Un 'primo studio', come si legge nelle note, che anche da parte italiana chiarisce la definizione che ne diede Mayerburg: Call me God è un'opera cubista. Fatta cioè di forme geometriche differenti, che concorrono a comporre un'opera unica: una di quelle opere che non sai bene da che parte guardare, perché la prospettiva è ribaltata, le proporzioni alterate, le singole parti fuori asse, e tuttavia è un'opera che comunica un senso unitario. Un senso che lo spettatore è chiamato a ricostruire, durante e a ritroso. Quello che invece è fuori discussione è che Call me God sia un testo che esige una messa in scena 'aggressiva', uno sguardo lungo e una mano robusta.
La regia di Machia fa bene a inseguire le linee centrifughe del testo, anche aiutato da uno spazio stretto e lungo (la navata di una chiesa) e dalla possibilità di muoversi su due piani utilizzando la balaustra, ma fa ancora meglio a creare una sorta di centro di gravità, di polo magnetico o chiave di volta da cui è possibile ritrovare la rotta, o almeno provarci. E' un box girevole, posto a un'estremità del campo scenico, che funziona anche da cassa di risonanza, luogo di sintesi e rielaborazione (le scene come le luci sono di Elisabetta Salvatori).
Tra i temi che confluiscono in modo affollato e rapsodico, il suicidio, che sarebbe "l'unico modo, oggi, di dimostrare che credi in quello che pensi"; l'accanimento verso il condannato a morte, raccontato con asettica disinvoltura, considerando che la sedia elettrica è un'invenzione alla stregua delle patatine, dell'elevatore, del burro di noccioline; i best sellers autografati su mostri e omicidi promossi con spottini trasmessi in tv; i soldati neri discriminati nell'esercito degli USA; i progetti di folli fanatici che vanno a monte per colpa del traffico; lo scopo reale dei terroristi che non sarebbe altro che immobilizzare l'America, e allora "andate nei supermercati" e sappiate che i "vostri figli nelle nostre scuole sono al sicuro". Si racconta della stupidità e dell'arroganza della polizia americana, si fa il verso a Bush e a Condoleza e poi si scopre che era una serie tv che va in onda a tappeto. Allo spettatore tocca stare al passo e sintonizzarsi sul ritmo accelerato, che ogni tanto si impenna, cambia in corsa e poi si flette verso nuove aperture, meno frenetiche, più lente, che forse rimandano alla scrittura di Spregelburd.
Anche se la regia mira a un'omogeneità in chiave pop, che si ritrova nei costumi di Sara Bianchi, e in pochi attrezzi di scena, oltreché nell'insistito utilizzo di video (Luca Anagni).
La prova degli attori, impegnati tutti in più ruoli, è stata generosa ed efficace.

CALL ME GOD
di Gian Maria Cervo, Albert Ostermaier,
Marius von Mayenburg, Rafael Spregelburd
Regia di Alessandro Machia