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Il rapporto tra padre e figlio, oggetto ma non unico di questa talentuosa drammaturgia di Fiammetta Carena, sembra essersi nel tempo fissato attorno ad un discrimine contraddittorio ed insieme irresolubile, il discrimine tra la violenza che nasce o si contrappone al potere, di cui il “pater” è simbolica ed universale semplificazione, e la relazione affettiva, rimanendo per altro paradossalmente incardinato intorno al mistero della comunicazione e della trasmissione di saperi e valori, tra imposizione e condivisione.
Un labirinto dunque, e a quel mito si rifà la drammaturga indirettamente riportandolo nelle mani di un padre debole che, quasi a salvaguardarsi, lo costruisce

fisicamente, con qualche legnetto e qualche ricordo di scuola, nel desiderio di mostrarlo al figlio, forse per trovare insieme a lui al suo interno una strada ove incontrarsi e comunicare.
Ma il labirinto con i suoi misteri produce mostri e lutti sempre più inconsapevoli, così Minosse che lo ha voluto vede morire il Minotauro, figlio rinchiuso e mai amato, mentre Dedalo che lo ha ideato vede morire Icaro che troppo si è allontanato.
Intorno a questi pensieri, o meglio suggestioni, si sviluppa tutta l’intensa messa in scena che ha il merito di narrare un’altra storia, quella della nostro essere contemporanei, ma insieme di suggerire significati antichi e profondi sui quali il rapporto padre e figlio ha trovato supporto e sviluppo, ha trovato un senso che ora appare perduto, mentre sullo sfondo il tabù del parricidio, compreso quello all’apparenza inconsapevole di Teseo, comincia a farsi strada.
Una narrazione dunque molto vicina a noi, quella di un padre incapace di capire e di farsi capire, senza il potere di imporsi o la capacità di condividere, ossessionato dal lavoro e dalle mani come unica via di uscita, e di un figlio man mano perduto in altri luoghi, assorbito da un branco assordante, come un concerto rock, ma insieme inesorabilmente vuoto, tra luoghi comuni e gratuite esplosioni di violenza.
Una narrazione forte fino alla violenza visiva, quasi senza pietà nello scavare la disperazione di un epoca che, anche quando non ci appartiene, ci angoscia nel profondo, cui la regia di Maurizio Sguotti fornisce gli strumenti e i movimenti giusti per dipanarsi (ancora un filo per tentare di salvarsi) in scena, anche ben organizzando nei movimenti recitativi una fisicità debordante e difficile da controllare e rendere efficacemente espressiva.
Fino all’esito finale in cui ogni filo si spezza, con il parricidio consumato in scena che mostra come l’uccisione dei miti e dei simboli non sconfigge i mostri (interiori e della società molecolare e liquida del nostro tempo) che lì si nascondono, ma li libera definitivamente.
In scena con lo stesso Sguotti (il padre), i giovani Federico Benvenuto, Riccardo Balestra, Tommaso Bianco e Diego Giannettoni già maturi nella mimica e nella gestione del corpo.
Scene, molto belle nella loro movimentata capacità di mutarsi, e costumi sono di Francesca Marsella, le musiche e il disegno luci di Enzo Monteverde, i movimenti di Davide Frangioni.
Una produzione Kronoteatro, vista ad Albenga ove per la stagione della compagnia è stato in scena dal 12 al 20 novembre nel piccolo “Spazio Bruno” del polo scolastico Pacini. Ancora una volta la supposta “provincia” teatrale sorprende sia nei lavori che produce che nel richiamo di un pubblico evidentemente desideroso di vero teatro e che ha a lungo applaudito.