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E' un piccolo teorema questo monologo scritto da Gianni Clementi per Paolo Triestino, sulla falsariga delle canzoni di Lucio Battisti, in scena alla Cometa off di Roma fino al 29 novembre. Una di quelle storie che finiscono con 'come volevasi dimostrare' dopo una serie di prove intermedie, fortemente indiziarie.  E quando arrivi alla fine sei persino contento che al tenero ragazzone a cui ti sei   affezionato, sia stato asportato un pezzetto di cervello. Piccolo, forse, ma provvidenziale.  Un ricettacolo di cattivi pensieri e brutte abitudini, che se ne vanno con un colpo di bisturi, lasciandoci inermi, cioè dis-armati, resettati come un computer, rimessi a nuovo, dimentichi della parte brutta di noi. Eppur mi son scordato di me, appunto, come il titolo mutuato da una delle più celebri canzoni di Battisti. Quel Battisti che a questo vecchio ragazzo degli anni settanta,

impegnato politicamente e politicamente corretto, era invece bandito.
Chissà se c'è in ognuno di noi una parte annerita di materia grigia che se per qualche malaugurata ragione ci venisse a mancare, ci renderebbe improvvisamente migliori?
E' quel che succede ad Antonio che a causa di un incidente stradale  subisce un intervento chirurgico al cervello, con conseguente coma e intubazione.
Tutto comincia su un letto d'ospedale, evocato da parole e situazione, tra le gaffes e le frasi di circostanza degli amici, inframmezzate dai ricordi che si affacciano nonostante lo stato di coma apparente.
In scena solo tre sedie attaccate a formare un'unica seduta che all'occorrenza diventa qualsiasi cosa -il sedile di una moto, di una macchina, del cinema-, uno schermo grande quanto il fondale su cui vengono proiettate immagini e filmati, una chitarra e lui, Paolo / Antonio che cerca di riannodare le fila di una vita, sospesa tra passioni, imbarazzi, conquiste, tabù e interdizioni in nome di epocali ortodossie condivise come Guccini sì Battisti no, perché Battisti è di destra anche se canta meravigliose canzoni d'amore.
E allora succede che dietro la bandiera degli Inti Illimani, con El pueblo unito, dietro Contessa e persino Blowing in the wind, che sventolavano in piazza e alle riunioni del Collettivo, o nelle vecchie utilitarie imprestate dai padri per rimorchiare la compagna di turno, ci si lasci andare alle note proibite dell'impronunciabile Lucio, cantando in segreto E penso a te, dedicata a Francesca.
La donna che poi è divenuta sua moglie e che stenterà a riconoscere, con quelle labbra da cernia e quei modi rudi che "no non può essere lei", Non è Francesca.  
E siamo alla sterzata, una delle tante, che dai toni sognanti va verso il grottesco, con Trottolino amoroso, il cognato 'coatto', l'amico siciliano il cui sogno più grande è di essere un odioso impiegato del catasto, cattivo e senza cuore perché è "l'odio oggi il vero motore del mondo".
Eccolo, dunque, il vero problema di Antonio: ricominciare in bellezza circondato da bruti, da vecchi sodali che non riconosce. Non gli resta che montare in sella e correre correre finché la realtà non si confonde col sogno, senza conflitti e contraddizioni, in una liquida osmosi di forme, con utopica grazia e qualche veniale licenza perché Lucio è con lui e lo tranquillizza che 'no io di destra? Ma quando mai'.
E' un po' questo l'andamento di tutta la pièce, che oscilla tra lirismo e comicità, ed è capace di creare insospettabili pertinenze: raccontando della morte di una palma sulla via Tiburtina o prendendo a prestito non solo Battisti, ma anche Kennedy e il suo funerale, o Charlie Chaplin e Il grande dittatore.
Paolo è bravo, anzi bravissimo, nel dar vita alla carrellata di personaggi che si presentano via via: il chirurgo, il cognato, l'amico, la moglie, il ristoratore con il difetto di pronuncia, gli altri. Perché sono tanti e a tutti è chiesto di contribuire a ricomporre una porzione di anima, anzi no, di cervello, per dimostrare che dopotutto  less is more.

Eppur mi son scordato di me
di Gianni Clementi
Regia e interpretazione di Paolo Triestino
Roma Cometa off fino al 29 novembre