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Maria Luisa Minguzzi e Francesco Pezzi sono nati nel bel mezzo dell’Ottocento, a Ravenna. Lei sarta abile e scrupolosa, lui ragioniere con un bell’impiego in banca, si innamorano e si appassionano all’anarchismo. Al Teatro Elfo Puccini fino al 20 dicembre va in scena  uno spettacolo curioso, appassionante, che profuma di storia – la nostra storia – ma parla di amore, di stare insieme sempre e comunque, di idee per le quali vivere e che ci conducono fino a morirne. La ricerca storica a cui Laura Gambi e Luigi Dadina, autori e attori dello spettacolo (quet’ultimo ne è anche regista) fonda le basi su vicende reali, è ben costruita nello scavo d’archivio (Archivio storico della FAI) e col supporto universitario (Università di Bologna). Eppure non è niente di più lontano da un’ingiallita pagina di storia locale. Sulla scena buia, con un semplice quanto efficace gioco di luci

radenti, la Minguzzi e Pezzi sono chiusi dentro una scuola elementare, quella di S. Bartolo vicino Ravenna. Ascoltano i bambini che vociano, loro che di bambini non ne hanno mai avuti; sentono il rombo delle auto, che in fondo conoscono ben poco; spiano il mondo con paura curiosa da una fessura. Sono morti. Da cent’anni e più sono lì, ad aspettare, a stare insieme, a litigare e a infiammarsi delle vecchie passioni politiche mai tramontate. I ricordi sono il filo conduttore della narrazione teatrale, le fughe a casa di amici anarchici di Firenze, Lugano, Napoli, Buenos Aires, Londra con la polizia alle calcagna; poi i compagni celebri di tante lotte libertarie come Andrea Costa, Anna Kuliscioff ed Enrico Malatesta, che è stato per qualche tempo amante della Minguzzi.
Carcere, confino, lunghe camminate nella notte per sfuggire alla cattura finché lei muore cieca nel 1911 dopo un massacrante confino a Orbetello, mentre lui suicida in un boschetto nel 1917.
La riuscitissima costruzione drammaturgica è un manipolo di involute vicende che si dipanano piano piano, come si conviene nei racconti a voce di un passato tanto lontano. C’è la rabbia e la gelosia, l’amore viscerale e la paura, la dedizione l’uno all’altro nonostante tutto, la fatica di affermare un ideale e la continua sconfitta. I due personaggi si mettono a nudo, si confidano e si accomiatano dal mondo con l’amara constatazione che si vive e si muore di ideali.
Non sono né frequenti né di sicura efficacia le operazioni drammaturgiche di ricostruzione storica che scelgono di lasciare i sentieri sicuri della memorialistica a favore di altre vie più ardue. Il risultato, in questo caso, è di grande interesse per la composizione drammaturgica a disvelamento progressivo, con incastri di vicende ad alto tasso emotivo in contrasto le une con le altre, come a sintetizzare in sessanta minuti una vita intera.
D’altro canto la cornice inventiva del luogo chiuso crea un’opposizione potente tra un dentro che continua a guardare nel “fuori” della storia che fu, e un fuori moderno e rumoroso che continua a penetrare nel chiuso di quella stanza buia. La sintesi finale è di impatto simbolico vivo, costituisce un riannodarsi della dimensione interiore con quella esteriore, il passato che fa la pace col presente e solo allora riesce a guardare al dopo, quel futuro che invece pareva porsi come indefinito e inesistente per tutta la pièce.