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Ha esordito in prima nazionale al Teatro della Tosse di Genova, dove resterà in cartellone dal 7 al 9 gennaio, questa nuova drammaturgia e regia di Fausto Paravidino che già nel titolo gioca sull’ambiguità evocativa di parole dalla doppia faccia e dalle molte radici affondate tra mito, storia e contemporaneità. È un lavoro che, a mio avviso, costituisce un salto di qualità nella scrittura di Fausto Paravidino che, invece di rintracciare e lasciare emergere nella sua narrazione contemporanea i segni e i segnali di una umanità incerta, sceglie il rischio di affrontare l’essenza e l’essenzialità di questa stessa umanità quasi guardandola direttamente negli occhi, guardando cioè i nodi simbolici che, costituendola, l’attraversano, a partire dalla strutturale ma insieme ambigua e ormai liquida rappresentazione che si dà attraverso il rapporto padre-figlio. Un rapporto che nella divinità incarnata della tradizione monoteistica si insinua ad influenzare (magari essendone influenzata) e formare l’identità singolare

e sociale fino alla modernità e alla stessa nostra contemporaneità.
Così la drammaturgia, con una sintassi semplice prossima e mutuata dalle narrazioni mitiche e bibliche ben più radicate in noi di quanto ci lasciamo immaginare, si trasforma in una sorta di impalcatura per uno scavo/introspezione, con accenti forse anche biografici, nella miniera oscura, fiammeggiante e talora dolente dello spirito, o della psiche/inconscio se questo termine si vuole privilegiare.
La storia del macellaio/macellato Giobbe e del figlio “che sa di finanza” è dunque lo specchio di una duplicità che riflette il divino e dal divino si riflette sull’umano, di una duplicità persistente ed inesauribile che il “pensiero unico” cerca di confondere ma non riesce ad esaurire, una duplicità interiore che si ostina a farsi espressione esistenziale, a strutturarsi nel sociale, addirittura a farsi politica nel senso più alto del termine.
È un presente “mitico” quello in cui si immerge e ci immerge Paravidino, in cui le scadenze esistenziali (gioie, nascite, lutti, successi e fallimenti) sembrano le cadenze di un pendolo che attraversa l’intera storia dell’umano. Dunque più che un confronto tra “vecchio” e “nuovo”, padre e figlio sembrano riproporre le nuove maschere di un conflitto che affonda radici e ragioni nella essenza stessa dell’umanità.
Continue le suggestioni che la scena suggerisce, dai clown inquietantemente simili a Caino e Abele, al banchiere suino di brecthiana memoria, alla stessa storia della famiglia di Giobbe che riassume quasi le contrastanti facce dell’esistere e di un amore diviso, nei due figli di Giobbe, diviso tra sesso egoistico e apparentemente vincente e dono senza contraccambio sempre sul punto di perire.
È infatti, quella di questa drammaturgia dalle ascendenze shakespeariane, una prospezione in una miniera piena di sorprese anche inaspettate ovvero inattuali, sorprese che affollano e talora sconcertano una scena in continuo movimento per un patchwork narrativo suggestivo fino al rischio di incoerenza, e che si chiude nell’happy end finale, questo sì inattuale, quasi fiabesco e miracoloso da cui riprendere la nostra ricerca.
Un finale in cui il ritorno a casa anche di chi è morto, un ritorno se non altro nell’intimità e nell’interiorità del sentire, è il segno di una rivalsa, della rivalsa attesa o sperata del sentimento rispetto al potere, che sembrava invincibile, del denaro nell’oscillazione continua del pendolo dell’esistenza.
Un patchwork anche di linguaggi non solo drammaturgici ma anche di sintassi scenica che vede alternarsi danza e pantomima, farsa e tragedia, dramma intimista e dramma politico, immedesimazione e alienazione, in un continuo dialogo tra “alto” e “basso” che nella lezione teatrale più contemporanea scava e cerca di estrarre dalla parola un senso arcaico per renderla con questo ancora più contemporanea.
In scena attorno ad un Fausto Paravidino (il figlio) che guida e organizza i movimenti, una compagnia di grande spessore che si alterna in molti ruoli e in molte tonalità e modalità di recitazione. Sono Emmanuele Aita, Ippolita Baldini, Federico Brugnone, Filippo Dini, Iris Fusetti, Arama Kian, Barbara Ronchi e Monica Samassa, in stretto ordine alfabetico e tutti da elogiare.
Importante anche lo staff scenico con Pasquale Mari (luci), Sandra Cardini (costumi), Guido Bertorelli e Marco Guarrera (scene), Enrico Melozzi (musiche), Giovanna Velardi (coreografie), Stefano Ciammitti (maschere), Maria Teresa Bertorelli e Camilla Brison (assistenti alla regia).
È uno spettacolo del Teatro Valle Occupato-Fondazione Teatro Valle Bene Comune, che anche per questo si definisce e “vuole essere” in un certo senso collettivo, prodotto dalla Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, che dopo l’esordio genovese proseguirà in tournée internazionale tra Svizzera e Francia.
Il successo è stato pieno e l’apprezzamento del pubblico ripetuto.

foto Tiziana Tomasulo