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Daniele era sempre più convinto delle sue idee, ora che di fatto la maggior parte delle compagnie teatrali era rimasta senza contributi statali in seguito alle nuove disposizioni.
No no, non era che lui si credeva il rifondatore del teatro italiano, ma era fortemente convinto che occorreva inventarsi qualcosa di nuovo, e che questo “nuovo”, secondo lui, erano in pochi a poterlo realizzare. Intendiamoci, nuovo proprio non era, in quanto le sue idee partivano da quelle “comunità” che i grandi padri del Novecento teatrale, tipo, per fare un esempio, un Copeau, avevano proposto come vie di salvezza del valore artistico e umano teatrale, in un tempo in cui la società di massa sempre più andava a premiare altre forme espressive: cinema, televisione, nuovi media.
Decise così di creare presso Foro d’Ischia, dove aveva avuto in eredità un piccola villetta,  investendo i suoi risparmi, una sorta di ostello, con alcune camere al primo piano, e, al pian terreno, una sala refettorio, adatta anche per vivere momenti di relax, o di meditazione, o yoga; i servizi, e una confortevole sala per training, con, su una delle pareti di fondo, una pedana sufficientemente profonda: questo spazio era dotato di tutte le attrezzature tecniche occorrenti. Poi, era la sua speranza, quei suoi primi “apostoli” avrebbero costituito altre comunità per gli stessi fini, e così via…
Si sarebbe dunque collegato con tutte quelle realtà vicine al cosiddetto teatro di ricerca e sperimentazione, da lui maggiormente conosciute, inviando a tal fine una sorta di “Manifesto di rifondazione del teatro italiano”, così concepito nei suoi punti programmatici:
Occorre ridare assolutezza al valore dell’arte teatrale.
Occorre a tal fine saper rinunciare a qualsiasi comodità “moderna”.
Occorre imparare a staccarsi dal contesto socioeconomicomassmediatico, come un monaco che evita di farsi distrarre perdendo le capacità intuitive di  vivere dimensioni spirituali.
Occorre raggiungere le massime capacità creative ed espressive e mantenerle lungo il tempo, anche e soprattutto nel caso occorra, per il proprio sostentamento, svolgere attività lavorative “diverse”.
Occorre saper coltivare i propri spettatori, essendo l’incasso derivante dallo sbigliettamento, una delle poche entrate economiche, e avendo sempre meno disponibilità da parte della mano pubblica.
Occorre creare nel territorio nazionale più centri, capaci di far svolgere tale programma a nuovi e giovani attori, registi, drammaturghi, ecc., in modo che si formino generazioni di artisti e spettatori, estranei al corrente, a volte corrivo, consumo di spettacoli teatrali maggioritari.
Occorre che tali centri si consorzino, creando una rete di spazi teatrali necessari a costituire una solida circuitazione.
Daniele, a proposito del suo Manifesto, registrava da alcuni colleghi e amici consensi pieni, da altri, dubbi e relativi suggerimenti, da altri ancora velati scetticismi, se non sfottò. Comunque, riuscì ad avere una decina di iscritti, provenienti da varie parti del Paese, che avrebbero costituito il primo nucleo della sua struttura di “rifondazione teorica e pratica del valore teatro”. A dimostrazione delle sue salde convinzioni del tutto avulse da finalità di guadagno, non chiese quote d’iscrizione: i partecipanti dovevano solo pensare a pagarsi il vitto, e una piccola quota per la corrente elettrica e l’eventuale riscaldamento. In cambio chiedeva la massima disponibilità di tempo, la massima concentrazione, la massima dedizione al lavoro: il corso non poteva durare più di un paio di settimane, proprio per contenere al massimo le spese; e anche perché, eventuali artisti ospiti, non potevano certo permanere più di un giorno presso il centro.
Daniele non chiuse quasi occhio la notte prima dell’arrivo dei primi dieci corsisti. Gli pareva di essere Dio nell’attimo della Creazione! Cosicché la mattina successiva si alzò gonfio di entusiasmo, lucido, pronto a donarsi ai dieci con tutto il suo corpo, l’anima, il cuore. Si sentiva un po’ un padre coi suoi figli, dato che il meno giovane di essi aveva 35 anni, e assieme gli pareva di essere un buono ma severo maestro al primo giorno di scuola!
Davanti aveva sei ragazze, tra i 24 e i 30 anni, e quattro ragazzi tra i 27 e i 35 anni, tutti molto assonnati, avendo viaggiato di notte, eccetto una ragazza proveniente dalla vicina Napoli.
Daniele si presentò agli iscritti, ricordando sinteticamente le sue esperienze: dagli inizi col Piccolo di Milano fino agli ultimissimi anni in cui aveva preso le distanze dal teatro ufficiale protetto e maggioritario, per maturare una dimensione artistica che andasse oltre il puro e semplice mestiere, per divenire ricerca interiore, lavoro su se stessi, dimensione anche spirituale che muovesse le energie più sottili, più nascoste, più incapsulate nei vari centri energetici, dal respiro alla circolazione sanguigna. Ribadì il suo stile di vita assolutamente sobrio: nessun spreco, nessun bisogno indotto dall’esterno, cibo quantitativamente controllato: insomma, vivere e fare teatro era ormai per lui un modo d’essere assoluto e irrinunciabile. Ormai lui pensava che chiunque avrebbe potuto rinunciare alle sovvenzioni e ai contributi, pur di non rinunciare a fare essere e vivere teatro. Con sottile durezza ed esplicita fermezza sottolineò che chi di loro non fosse del tutto convinto di giungere a tali conseguenze se ne sarebbe dovuto andare da subito: nessuno intervenne, nessuno si mosse!
La giornata filò via intensa: esercizi di respirazione, asana base dello yoga più abbordabile, momenti di meditazione, esercizi fisici e ginnici al fine di conoscere molto bene il proprio corpo: Daniele osservava con la massima attenzione il modo di lavorare e d’impegnarsi di ciascuno dei dieci: consigliava, suggeriva, sosteneva, anche a volte scherzando per allentare ogni tensione; testava le fasce muscolari dei ragazzi più robusti, e chiedeva alle ragazze dalle articolazioni strette e magre se avessero particolari dolenzie  e fastidi.
La sera c’era molta animazione, in attesa che arrivassero le pizze ordinate da Daniele alla pizzeria di cui si fidava: mangiavano tutti di gusto, parlottando, conoscendosi l’un l’altro, e rivolgendo a Daniele molte domande. Era quasi mezzanotte, quando uno alla volta tutti si portarono, davvero stanchi, ma molto intimamente contenti, alle proprie camere.
Daniele andò nel suo studiolo, davvero contento di quella prima giornata, per prendere alcuni appunti sul lavoro fatto: quali esercizi svolti e le risposte individuali di ciascuno dei partecipanti, e di essi il grado di attenzione, la capacità di concentrarsi sul lavoro, la serenità degli atteggiamenti. Telefonò alla sua compagna per un rapido saluto comunicandole la soddisfazione per quel suo inizio. Si fece una doccia calda e si mise a letto, con in mano un volumetto di poesie di Rilke: alla terza poesia, favorito dal silenzio scuro dell’isola, s’immerse in un sonno profondo e abitato da un caleidoscopico roteare di sogni.
Il bussare al portoncino della villetta fu perentorio! insistente! impaurente!
Daniele venne svegliato dal giovane più grande, che lo scosse tirandolo per un braccio: fece una fatica immensa per svegliarsi, e, sulla di lui indicazione, andò ad aprire la porta d’ingresso trovandosi davanti un addetto alla Protezione Civile di Ischia, più bianco in volto d’un fantasma. Lo fece entrare, accorgendosi che erano le 3 di notte, e chiedendogli cosa fosse accaduto.
“O’ terremoto, signo’ ”, dovete andarvene via, subito, m’aggio spiegato?”.
“Terremoto?... ma dove?” fece Daniele.
“Pare al centro del Tirreno e pare che arriverà ‘na specie de tzunami!. Datemi retta: iatevenne, vi prego, per il vostro interesse! Fra ’na mezz’ora passerà un bus della Protezione per caricare gli abitanti di questo vico! Sbrigatevi, e bona sciorta!”.
Daniele si sentì confuso, incredulo, disorientato, mentre il giovane uomo trentacinquenne, per colmo d’ironia di nome Prudenzio, partecipante al corso, già aveva allertato tutti i suoi compagni: Daniele sentiva il trambusto delle stanze al piano di sopra, come fosse l’eco stesso del terremoto, o del maremoto, che fosse. Seduto su uno scalino della porta d’accesso alla sua abitazione, immerso nell’oscurità, essendosi spenti i lampioni della strada, vide uno ad uno uscire i dieci corsisti, tesi, impauriti, al punto che le più giovani piangevano per l’angoscia. Alcuni sussurrarono un “mi dispiace”, partecipi di quella che appariva negli occhi tristi e semichiusi di Daniele un’enorme delusione, un’ingiusta sconfitta: si erano rivolti a quello che sarebbe dovuto divenire col tempo un loro maestro. Arrivò il bus preposto al trasferimento in luoghi più sicuri e alti dell’isola, dato che i traghetti e gli aliscafi e qualsiasi altro natante non avrebbe potuto prendere il largo.
L’autista gridò a Daniele di sbrigarsi, ma lui rientrò dentro casa, come fosse un perfetto estraneo rispetto a quel clima di tregenda annunziata. Sentì il bus partire con una strombazzata fragorosa. Tornò sulla porta con nelle mani una robusta corda, un fiasco di vino, una mezza pagnotta sfornata giusto  all’inizio di quella prima giornata così gonfia di aspettative, desideri, curiosità, dubbi, speranze. Indossava un mantellone impermeabile verde, con un enorme cappuccio. Si mise la corda attorno alla vita, girandola più volte, e assicurando un capo tramite un nodo tipo quello delle graticciate dei palcoscenici classici, a un robusto anello di ferro semi arrugginito infilato e cementato nel muro maestro esterno. Si sedette così appoggiandosi al largo stipite della porta a fianco dell’anello ferrigno.
Daniele desiderava con tutto se stesso guardare in faccia quelle forze della natura che volevano vanificare il suo progetto per la “rifondazione del teatro”: le voleva vincere, voleva sopravvivergli: o morire, affogando come un cane qualsiasi. Sapeva che la vita è come il teatro, sempre in pericolo, sempre sul punto di sfaldarsi, ma si chiedeva anche perché proprio in quel giorno, e proprio lì, nell’isola, doveva accadere il finimondo, colpendolo in pieno, mortificandolo, umiliandolo…
E il finimondo arrivò: dapprima con forti boati, poi con ventate gonfie di atomi d’acqua salata, esalati dalla profondità marine; poi arrivarono vere e proprie bordate di acqua che man mano s’incuneavano lungo i vicoli che salivano dal mare, portandosi via di tutto, e costringendo Daniele a schivare detriti di ogni genere in continuazione. Si udivano grida lancinanti provenire da angoli vari dell’isolato. Grida di dolore, di strazio, di terrore: Daniele vide anche passargli davanti qualche cadavere di affogati, completamente denudati dalla furia degli elementi. La corda e l’anello reggevano, ma ancora per quanto, si chiese Daniele. Iniziava ormai ad albeggiare, e sirene ululavano squarciando gli strati di aria resa pesante dai vapori, dal turbinìo dei venti che ammassavano materiali, i più svariati. Quasi all’improvviso il cielo si aprì, mostrando un immenso riflesso perlaceo di luce che stava trionfando su tutto quel disastro sopportato dall’isola. E da Daniele. Che si slegò, bevve un goccio di vino, mangiò un tozzo di pane, entrò nella casa, trovando quasi tutto distrutto: infissi, vetri, mobilia, strumenti tecnici, cavi divelti: le due vaste sale completamente allagate! Un pianto dirotto  lo prese, come mai prima nella vita: si accorse di aver smarrito il cellulare, ma pensò pure che non potevano esserci linee attive. In quel momento era solo, in un infinito silenzio che tutto avvolgeva: gli pareva di essersi tuffato in un vuoto cosmico, dove ogni elemento gli era divenuto invisibile. Tutte sensazioni, stati d’animo, pensieri che non volle scacciare, e che preferì attraversare in tutta la loro incredibile, perturbante, apparente irrealtà. Intuì che forse aveva vissuto in qualche modo l’esperienza del vuoto buddista.
Ci volle qualche giorno a Daniele per capire l’entità dei danni che, nel giro di qualche anno (un lasso di tempo che gli pareva un’eternità) certamente gli avrebbero ripagato, dato lo stato di calamità naturale riconosciuto dal governo centrale e dagli enti locali. Daniele pensò anche che, pur essendo non molto vasta la zona dell’isola colpita, sarebbe occorso molto denaro a causa della gravità dei danni, e sarebbe stato inutile sperare di ottenere qualche aiuto, qualche sovvenzione pubblici.
Passò giorni a pensare e ripensare a cosa poter fare, sentendosi tradito dalla vita, e sempre più immerso nello scoraggiamento più irrimediabile. Parlò a lungo con quelle persone con cui poteva confidarsi liberamente, e con la sua compagna. Tutti gli consigliavano di lasciare il teatro attivo, di trovarsi qualche lavoro come doppiatore, o di tornare a fare televisione, che a suo tempo gli diede soldi e soddisfazioni.
Daniele man mano che passavano i giorni, e le ore, e la tristezza si diluiva nel corpo vivo dei suoi pensieri e nelle arterie del suo cuore, si rendeva conto che per anni avrebbe dovuto abbandonare quel suo progetto!
Arrivò infine il momento di una recuperata serenità, e con essa la decisione di rimeditare e riscrivere, diffondendolo in ogni modo possibile il suo “Manifesto di rifondazione del teatro italiano”.