Pin It

E’ una fortuna che Marcello Isidori mi abbia chiesto di scrivere questo pezzo in questo momento preciso della vita. E’ una fortuna perché posso condividere un tentativo (uno sforzo) di ripescare la mia necessità di stare con lui, il teatro. Mi sono

innamorata di lui tanto tempo fa. Da bambina.
L’ho conosciuto in un piccolo teatrino di paese. Uno spettacolo per ragazzi. Era un clown che scendeva dal palco e veniva a farmi annusare un attaccapanni. Un colpo di fulmine. Poi l’ho perso di vista. Abitavo in un paese del Trentino e allora non c’erano i cellulari. L’ho rivisto la notte in cui è morto Strehler. 1997. Ero in quarta liceo. Tutta la notte ho guardato i suoi spettacoli e ho scoperto chi era. Ma lo guardavo da lontano, timidamente. Pensavo di non essere degna di lui, il teatro. Per anni. Una devozione sacrale. Non volevo niente in cambio. Solo stare dove era lui. Vicino. Lettere Moderne indirizzo Storia e critica delle arti, animazioni teatrali nelle scuole. Finché ci fu un primo vero approccio inaspettato nel 2003. Nel camerino di Piera degli Esposti. Ero lì con Andrea Chiodi. Eravamo due giovani universitari che cercavano di organizzare una lectura Dantis all’Università Statale di Milano. Piera era già la maestra di Andrea ma io la conoscevo in quel momento. Parlava molto. In quel suo modo incomprensibile e sorprendente, per chi la sente per la prima volta. Ad un certo punto, mi ricordo, deve essersi stufata del mio mutismo imbarazzato perché interruppe il suo racconto e mi chiese: “Ma tu cosa vuoi fare in teatro? Cioè… che personaggio ti piacerebbe… fare? Non so… Antigone, Elettra, Lady Macbeth…” e io non sapevo cosa rispondere… ma siccome lei insisteva allora vinse, in me, la paura di sembrare davvero tonta e mi ricordo che mi uscì una cosa di getto… avevo una borsetta, di quelle nere di plastica con la cerniera e le dissi sinceramente “Ma io che cosa posso volere, cosa c’entro con quelle, io, qui, con questa borsetta…” e lei mi guardò col suo sguardo stupito e disse:  “No, dico… è bello che dici questa cosa. E’ giusto.” Ecco. Lì capii che in qualche modo lui, il teatro, avrebbe potuto accettarmi. Forse. Se fossi diventata un’attrice vera. Se no mi promisi di dimenticarlo per sempre. Allora feci i provini per le scuole. Mi presero all’Accademia dei Filodrammatici. Due anni belli. Eravamo tutti innamorati di lui, del teatro. Non importava chi l’avrebbe conquistato per il momento. Ci si aiutava tutti per farsi belli per lui. Esistevamo solo noi e lui. Io però avevo un’ascendente in più, mi pareva. Perché avevamo, io e lui, un’amica in comune che gli altri non avevano, Lucilla Morlacchi. La conobbi per la tesi di laurea, che aveva per oggetto la sua biografia e divenne la mia maestra. Generosa e amorevole ma severa, dura. Mi metteva in guardia dal teatro ma con gli occhi pieni di passione. Come feci a non innamorarmene di più? Oltre al fascino che aveva già, per me, si aggiungevano le storie di Lucilla: i racconti su Visconti, Squarzina, Parenti, Testori, Castri, il lavoro sul personaggio, la dedizione viscerale, le umanità sorprendenti e il rigore della mia maestra. Dopo l’Accademia lui, il teatro, decise che potevamo, per il momento, essere amanti. Io pensai a qualcosa di più ma perché il mio amore era ormai folle e cieco. In ogni modo stavamo insieme. Musical, tragedie a Siracusa, progetti in proprio. Ero un’attrice sposata col teatro. Una relazione a tre con il mio marito vero, Andrea Chiodi, che, d’altra parte, essendo regista, ne era colpevole quanto me.
Poi sai quando arriva il momento che l’amore cambia e si assesta. Successe questo tra me e il teatro. Mi sentivo più libera con lui. Avevo meno paura di perderlo. Aprivo gli occhi verso la vita, il mondo. Anzi, il rapporto con lui serviva per scoprire di più la realtà e farla scoprire agli altri. Agli spettatori voglio dire. Dunque tutto poteva convivere: momento meraviglioso di compiutezza in cui io e il teatro potevamo indagare l’essere umano. Meraviglioso. Ma non c’era solo questo. Tutta l’inadeguatezza che derivava dalla mia origine paesana, trentina (nomi imbarazzanti solo a pronunciarli) diventava ora una materia da esplorare e da condividere. Diventava universale.
Tutto questo si incarnò misteriosamente nella scrittura di “Avevo un bel pallone rosso”. Il dialogo tra Mara Cagol, la fondatrice delle BR e suo padre. Infatti, nonostante non fosse un testo perfetto, vinse il Premio Riccione 2009. Il teatro mi amava. Lo rappresentammo per due stagioni. Lì conobbi Carmelo Rifici. Lui ne fece uno spettacolo bello. Prese il testo e ne trovò la parte profonda, il non-detto, la parte inconsapevole che di me vi era entrata, come sa fare lui. La parte misteriosa. Solo anni dopo ho capito che questo deve essere il momento da guardare da fuori, il tempo della  contemplazione, per un drammaturgo. E’ un momento di grande privilegio. Ma ancora pensavo che l’amore vero col teatro lo facesse solo l’attrice. E scrissi la parte per me e volli farla io. La feci con grande fatica. Ma andò bene. Mi pare.
Alle volte penso che diventerò una vecchia scrittrice senza denti (con la dentiera, dai) e continuerò a dire: “Sai, quando ho fatto il Pallone rosso…”. Può essere. Non so se capiterà un altro momento, stato d’animo, miracolo come quello. Che un testo non perfetto in dialetto trentino sia tradotto in francese e sia rappresentato per quattro stagioni di fila in Francia, Belgio, Svizzera, Lussemburgo da Michel Didym e da due attori importanti del cinema francese come Richard e Romane Bohringer, che per di più sono veramente padre e figlia e sono eccezionali. E hanno vinto un Palmares per questo spettacolo. Per una donna trentina vi assicuro che è un miracolo. Per quella ragazza con la borsa di plastica nera nel camerino di Piera Degli Esposti è una rivoluzione.

Quando ho scritto “Avevo un bel pallone rosso” la domanda era: come mai una ragazza trentina cattolica, di buona famiglia, arriva in pochi anni a fondare le Brigate Rosse? E poi c’era la nostalgia per la figura autorevole del padre che, mi sembrava, era stata distrutta in quegli anni.
Voglio dire che in ogni testo ho una domanda e delle suggestioni forti. Che sono mie ma, mi pare, potrebbero essere ragionevolmente anche quelle della gente, della mia generazione almeno. E poi ci sono dei compiti un po’ didattici che mi prefiggo. Per primo raccontare un pezzo di storia, così come l’ho scoperta io, cercando di essere vera, attraverso il mio punto di vista, attraverso il punto di vista dei personaggi che, evidentemente, decido di far vivere. Cerco di raccontare la verità. Cerco di non forzarla. Ma è evidente che la leggo con i miei occhi, quelli della mia generazione, della mia educazione, del mio quotidiano. La leggo per capire cosa sono io oggi.
Il secondo compito è far capire che la storia filosofica, artistica, politica, sociale, teologica c’entra con l’esistenza di ogni idraulico. Mio fratello per esempio, mio padre, per esempio.  Quando ho scritto l’”Officina, storia di una famiglia” volevo capire da dove derivava la fissazione di mio padre per il lavoro. Come mai fosse ingabbiato in questa mentalità. Mettere in scena lo scontro tragico ma reale tra questa mentalità e la logica gestionale ed economica delle aziende oggi.
Quando ho scritto “Il compromesso” volevo capire cosa ci fosse stata in quella reticenza di mia madre, quando ero piccola, nel dirmi cosa fossero i comunisti. Si era dimenticata o non l’aveva mai saputo? Ne era attratta? Non voleva parlarne male? E perché, quindi, continuava a votare DC? Volevo capire qualcosa di più della storia politica italiana. Ho inventato, dunque, la storia di una famiglia trentina dal 1915 ad oggi.
Quando ho scritto “Stragiudamento” (il monologo di Giuda in un eterno presente) volevo capire come un uomo potesse rifiutare un amore grande, come sia possibile addirittura rifiutare un amore senza limiti perché diverso dalla propria idea e misura. Mi pareva che Giuda fosse uno degli archetipi che viaggiano nell’inconscio di tutto l’Occidente.
Quando Sandro Mabellini mi ha chiesto di lavorare a “Stava la madre” volevo capire perché Jacopone da Todi nello “Stabat Mater” chiedesse alla Madonna di soffrire per arrivare al paradiso. Perché oggi la sofferenza e la morte siano un tabù. Cosa è cambiato strutturalmente nell’essere umano. L’ho fatto in modo comico: due donne di paese che fanno le comparse in un film religioso americano di serie B e, mentre aspettano, sotto la croce, ricordano il loro rapporto scalcagnato con il Cristo in croce dietro di loro, ma anche con la loro vita.
Quando ho scritto un capitolo del progetto “Chi resta” per Carmelo Rifici volevo capire come accadesse l’irrompere improvviso della vita nell’aridità dell’ideologia.
Quando abbiamo scritto “Guida estrema di puericultura”, io e Francesca Sangalli, ci chiedevamo perché fosse così importante essere produttivi nella nostra società, tanto che la maternità è considerata obiezione alla felicità.
Quando Andrea Chiodi mi ha commissionato “Long ‘me la Fabbrica del Dom” per la Fabbrica del Duomo di Milano mi chiedevo dove si fosse smarrito quel desiderio che aveva permesso che un popolo edificasse una cattedrale e quale mistero ci fosse dentro quella staffetta di artigiani scalpellini che dal 1300 sono arrivati fin qui e hanno edificato quell’enorme chiesa. Era un testo a servizio della Fabbrica e della regia poetica di Andrea. Ma l’essere a servizio porta doni inaspettati, come infatti è accaduto in quel bellissimo spettacolo sul tetto del Duomo.
Quando ho fatto al Teatro Due quell’indagine su Clitennestra con Carmelo Rifici per Elisabetta Pozzi mi sono chiesta quale mondo smarrito raccontasse Eschilo e se, per caso, ci fosse uno strano legame tra quel mondo e i fatti terroristici di oggi.
Non è un interesse storico-accademico il mio. Ci sono degli “ostacoli” alla felicità, che mi trovo addosso nella vita di tutti i giorni. Sono vizi di comportamento, sono momenti di aridità, difetti, nevrosi, insicurezze, tabù. Non sono gravi, per carità. Roba normale, penso. Universale o, almeno, europea. Sono ciò che determinano quello che sono. Senza quelli sarei una cosa astratta, un’idea di me, non una persona. Sono quelli che mi fanno sentire vicina ai miei conterranei trentini, italiani, europei, mondiali. Ecco, se guardo alle cose che ho scritto, spesso credo di pormi un obbiettivo assurdo: quello di poter guardare e rimuovere, come una terapia collettiva, le nevrosi che ci ha lasciato addosso la storia umana recente. Non credo che ci si riesca davvero, evidentemente. La cosa che spero succeda, almeno, è una com-passione per la fragilità di quello che siamo. Ecco, se vado a teatro le cose che mi piacciono sono queste. E io cerco di scrivere cose che mi piacciono. Certe volte scrivo, ci perdo dei mesi, le rileggo con commozione e dopo due giorni mi accorgo che non c’era sotto niente. Quello che mi salva è ritornare alla Storia, alla fine. Mi accorgo che l’orizzonte, per me, deve essere sempre vasto. Magari la vicenda di un’azienda trentina ma, dietro, l’orizzonte di tutta la storia politica, sociale, operaia. Senza quello non funziona, per me. Lo sento inutile.

Il metodo? La forma?

Comincio a studiare la storia e i punti di vista autorevoli. Leggo dei gran libroni sul momento storico, grandi saggi di Hannah Arendt o Jung, per dire… o il racconto della Costituzione dal punto di vista dei dossettiani e poi dei comunisti… o l’analisi della situazione del grano in Trentino durante la prima guerra mondiale scritta da Cesare Battisti. Anche cose inutili così. Ma magari c’è qualcosa da scoprire. Qualche spunto importantissimo. Mi piace molto colmare delle lacune. Mi sento bene quando lo faccio. Prendo un sacco di appunti. Poi intervisto delle persone vicine a quel mondo, se ho il tempo e la possibilità di farlo. Quelle interviste sono forse il momento più ricco e fertile del lavoro. Sono stata giornate intere sui trabattelli del Duomo di Milano, per esempio, a seguire il lavoro del capocantiere. A sentire come parlano oggi gli scalpellini. Un privilegio assoluto.
Poi di solito cominciano ad arrivare le idee per le scene. Cerco di impostarle in modo che funzionino. Ho imparato qualche strumento in Accademia, diciamo, con Karpov, Peter Clough, Bruno Fornasari e Karina Arutyunyan. Le circostanze date, l’evento… qualche altra cosa in più che faccia andare avanti la storia… strumenti semplici… cosa vuole il personaggio e cosa tace. Lo storytelling me l’ha insegnato da poco la mia amica Francesca Sangalli. Prima non lo conoscevo, sinceramente. Dentro lo schema lascio libertà ai personaggi, non so come dire… possono accadere dei cambi inaspettati, tutto è nutrito da qualcosa di profondo, che lascio uscire. Ma ci vuole un paesaggio preciso, una struttura in cui giocare. Se no mi perdo e non succede niente. Una noia mortale. Cerco di stare attenta alle intuizioni geniali. Sono figlia di artigiani, fabbri, non di artisti. Il lavoro deve funzionare. Il cancello deve chiudersi. Il rubinetto deve far uscire l’acqua. il canale deve essere ben stagnato. Questo me lo porto dietro.

Succede nella vita, che uno si disamori. Si comincia a rompere qualcosa, giorno per giorno. Non è colpa di nessuno (o sì?), magari la stanchezza, la crisi, la gastrite, l’Isis che avanza e che fa paura. Non lo so se qualcuno ha colpa, nel mio caso. Sicuramente al mondo ci sono gli invidiosi che mettono zizzania. Forse hanno fatto così anche fra me e lui, il teatro. E poi ho molte recriminazioni da fargli. Non è più come quando l’ho conosciuto… quelle cose di cui mi ero innamorata non ci sono più… o forse sono io che mi sono annoiata. Ho cambiato priorità.
E lui non lo accetta. Non capisce. E’ tipico, quando ci sono i figli di mezzo.

E qui il giochino che ho inventato all’inizio finisce perché i figli sono veri e il terzo, Gregorio, è qui di fianco a me che dorme e oggi compie sei mesi.
Dal 2010 al 2015 ho avuto 3 figli. Un marito (vero) santo e due nonne in aiuto. Leggo i libri della Margaret Mazzantini e mi dico che posso farcela anch’io come lei. Che si può fare. Per fare vedere a tutti che non mi sono fermata al “Pallone rosso” (vedi paura della dentiera…) ho trovato un’idea geniale e mi sono iscritta a Premio Scenario. Una donna europea che ha smarrito le sue origini e dunque, pur essendo poliglotta, comincia ad “impastare” tutte le lingue. Passo le selezioni. Partorisco il 6 luglio e il 14 faccio la finale. Vinco. Incredibile. Vi sono grata per la fiducia, grazie, non me l’aspettavo. Sono felicissima. Sono stanchissima. Tre figli da gestire sono davvero difficili ma io dico alla giuria che ce la farò, sono fortissima. Ti amo teatro, ti amo. Sei la mia vita. Io sono tua. Finisco di scrivere “Il Compromesso” per Rifici a fine settembre, lavoro al mio “Mad in Europe” e a fine novembre… lo spettacolo non è finito. Non ho il tempo di leggere i miei soliti libroni tra un allattamento e l’altro. Prendo una sbandata colossale per delle trovate drammaturgiche e sceniche inutili. Sono stanchissima.  Mi dicono che il lavoro non è compiuto. Lo sapevo. Non ce l’ho fatta stavolta.

Non riesco mai a fare il finale. Lo faccio sempre doppio. Oppure sono madre e so che durante il parto si muore ma poi c’è la vita.
Sono trentina e non mi rassegno. Lavoro. Quando ho pensato a “Mad in Europe” volevo fare un testo “strano”, che facesse innamorare di nuovo il teatro di me. Ma il teatro non esiste.
La mia amica Lucilla diceva che lei aveva dato tutto al teatro ma non aveva ricevuto niente in cambio. Era vero. Quello che chiamiamo “teatro” può essere davvero meschino. Un grumo di persone che si scannano tra loro per ottenere una piccola autorità, una lobby di intellettuali che creano artisti a loro immagine e somiglianza per non mettersi in discussione, una miriade di blogger che scrivono senza considerare quanto le parole possano demolire il lavoro di fragili giovani artisti, uno stormo di persone disorientate che non vivono, non amano, non sanno cos’è costruire, un gregge di artisti che vende l’anima per seguire leggi di un mercato che non ha leggi se non dei piccoli giochi di potere.
Questo teatro esiste. Esiste anche in me, qualche volta. Ma io non conosco solo questo teatro. Conosco i critici capaci di guardare. I produttori che amano gli artisti e rischiano soldi e tempo per sostenerli, sapendo quanto è delicato e importante il loro lavoro.
Conosco tanti colleghi che cercano, semplicemente, con dei tentativi ironici, di raccontare l’uomo nella sua complessità. Io voglio essere una di loro. Conosco quelli che cercano di far ridere, piangere, scoprire, condividere, compatire, pensare, arrabbiare, sorprendere. Non tutto insieme, dai. Ricette diverse per storie diverse. Ce ne sono molti di questi artisti. Soprattutto in Italia. Forse sono gli stessi, che a volte diventano malati e cattivi perché sono messi alla fame. O si impantanano in quel vizio tutto italiano di lamentarsi e di essere autoreferenziali. Quante volte succede, anche a me?
Lo amo e lo odio, il teatro. Ma riesco ad essere anche molto lucida: io non darò tutto al teatro. Non posso più. Non so se me lo perdonerà. Ma forse ci farà bene. Forse anche lui capirà che sarà utile, per lui, quello che avrò da raccontargli sulla vita vera, sui figli, sulla politica, sulla scienza, sulla fede, sulle madri, sui padri, sugli amici, sulla famiglia, sull’amore, sull’odio, sulla recita dell’asilo, sulle crisi adolescenziali che arriveranno, sulla storia, sulla logica, sulla filosofia, sulla nostalgia, su di me.  Tutto questo dovrà rientrare in “Mad in Europe”, questa volta. Ho riscritto lo spettacolo da capo, grazie al paragone con la vita vera. Chi ha detto che gli spettacoli non possono rinascere?
Sono, come sempre, grata alle persone che lavorano con me, ai registi e agli attori che sacrificano ore di prove per far vivere le mie parole, agli scenografi, ai costumisti, ai direttori di scena, ai tecnici, ai produttori, al pubblico che esce di casa ed entra nel teatro. E sta al gioco.
Per il resto, spero di essere così libera da lasciarmi sorprendere e gioire. Da scrivere cose belle.

P.S.:
Agnese (mia figlia, 3 anni, passeggiando d’inverno): Mamma, guarda quanta margarina per terra!
Io: Cosa vuoi dire Agnese?
Agnese: Guarda! Quella bianca! La margarina!
Io: Ah… E’ brina Agnese! Brina!

Edoardo (mio figlio, 5 anni, nel lettone): Ma come ha fatto Dio a crearsi?
Io: E’ un mistero Edoardo.
Edoardo: Io pensavo che prima del mondo non c’era niente, era tutto bianco. Poi Dio usciva da una porticina ed era come un uomo…

Angela Dematté
E' attrice e drammaturga. Si diploma all´Accademia dei Filodrammatici e lavora come attrice con Mimmo Cuticchio, Peter Clough, Walter Pagliaro, Andrea Chiodi, Mario Gas, Bruno Fornasari, Carmelo Rifici. Con il suo primo testo “Avevo un bel pallone rosso” vince nel 2009 il Premio Riccione e il Premio Golden Graal. Il testo è messo in scena da C.Rifici così come altri testi tra cui: “L’officina-storia di una famiglia”, parte di “Chi resta”, “Il compromesso”. Tra gli altri testi messi in scena: “Stragiudamento” (regia di A. Chiodi), “Stava la madre” (regia di S. Mabellini) , “Guida estrema di puericultura” scritto con Francesca Sangalli (finalista premio Dante Cappelletti, regia di R.Sarti). Vince il Premio Scenario 2015 con  il progetto “Mad in Europe”. Il suo lavoro è messo in scena e pubblicato in Italia e in Francia (Editoria e spettacolo, Les solitaire intempestifs).