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Con il lodevole intento di onorare una grande germanista italiana, che ha speso gran parte della sua attività tra Firenze soprattutto e Trieste, e di celebrarne i 65 anni, il Dipartimento di Germanistica dell’università di Perugia, uno dei più attivi in questo campo, ha inteso promuovere, a cura di Dorowin, Svandrlik e Treder, questa interessante raccolta di saggi che, su quel filo rosso quasi di occasione, vuole sviluppare il tema affascinante della presenza del mito nel teatro tedesco, a partire dai suoi secoli d’oro fino alla contemporaneità. Tema affascinante certo, ma per la sua complessità e ampiezza, anche terribile ove si consideri che al suo interno si mescolano ed intersecano inevitabilmente l’approccio filologico e quello estetico, il tema della traducibilità sia tra lingua e lingua che tra scrittura (letteraria) e scrittura (scenica) e quello del confronto tra culture, sia nel senso orizzontale dei forti e storici scambi tra Italia e Germania, che in quello verticale tra antichità e modernità, ed infine tra poetica e politica culturale. E’ un viluppo che giustamente i curatori non si peritano di districare limitandosi, ripeto correttamente, al riparo dello schermo offerto dall’occasione per così dire celebrativa, ad organizzare un raffronto/confronto tra spunti interpretativi, ciascuno in grado di offrire elementi di riflessione ed analisi, secondo uno schema più metodologico che interpretativo, proprio a riconoscimento di una modalità di studio e analisi, che tutti gli intervenuti a questa sorta di convegno a mezzo stampa riconoscono alla Fancelli. La stessa scelta dell’argomento e del contesto, il teatro, non solo si ricollega agli apporti specifici che Maria Fancelli ha elaborato nel corso della sua attività, in quanto “del teatro la festeggiata si è occupata spesso instaurando anche una fruttuosa collaborazione con il Teatro Bellini di Catania”[p.7], ma credo soprattutto alla volontà dei curatori non di non restringere il campo dell’interesse nei confronti della festeggiata stessa e dei saggi in suo onore ad un troppo ristretto novero di specialisti, aprendolo invece anche ad una più vasta platea di studiosi che del teatro si occupano anche da altri riguardi, come la sottoscritta. Del resto ricordo che un tale approccio non è nuovo per quel gruppo di studiosi di germanistica, che già nel 2002 promossero la raccolta di saggi frutto di un convegno da loro organizzato, curandone la pubblicazione nel bel volume Il Teatro Contemporaneo di lingua tedesca in Italia per le Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli [cfr la mia recensione in Ariel Anno XVIII n. 1 Gennaio-Aprile 2004 pp. 249/253]. Come detto la vastità dell’argomento e la ricchezza dei numerosi interventi e, al loro interno dei diversi approcci interpretativi e ermeneutici, mi impone di scartare una disamina dei singoli saggi pubblicati, che finirebbe per inutilmente stancare il lettore, suonando come pedissequa ripetizione o peggio superficiale rimando ai testi, cui invece il lettore può dedicare direttamente il suo interesse con certamente maggior profitto. Agli stessi è dunque bene rimandare non astenendomi dal rimarcare come l’escursus storico sia tanto ampio da essere quasi esaustivo, non mancando di recuperare opportunamente gli aspetti di una inaspettata ipotesi di rilettura, alla luce e sotto la lente del mito, di elementi della più stretta e anche tragica contemporaneità, quale quella inerente la parabola della tedesca R.A.F. Anzi proprio quest’ultimo saggio di Matteo Galli, ultimo anche nella impaginazione del libro, mi fornisce l’occasione per un tentativo di analisi del senso generale che, dalla disamina dell’argomento in questione da parte dei diversi interventi, mi sembra emergere e che supporta anche una sorta di interpretazione comune del fenomeno, al di là delle specifiche angolazioni che pure arricchiscono le possibilità di analisi da parte del lettore e, ancor di più, al di là dello specifico contesto affrontato, quello del teatro tedesco, fino a riguardare, credo, il teatro in generale come forma espressiva. Ciò che in effetti, variamente e con diversi accenti ma con un sfondo comune, mi pare uniformemente emergere dai singoli saggi qui pubblicati è che l’utilizzo del mito è nel teatro tedesco, e quindi aggiungo io nel teatro in generale considerato, non mera questione contenutistica, anzi risulta eminentemente questione di scrittura, dunque linguistica dunque cognitivo/interpretativa tout court. Nel senso che, cerco di chiarire meglio il mio pensiero, l’utilizzo del mito non è semplice questione di scelta tra fabula e fabula, scelta di trama o canovaccio che dir si voglia, ma va a toccare le radici stesse del significato del fare teatro, del senso e della capacità di conoscere e comunicare della scrittura teatrale, della articolazione estetica e poetica primigenea della sintassi drammaturgia. Un primo indizio è infatti fornito dal saggio di apertura di Claudio Magris, Cimiteri di Polene, che pure per argomento sembra esserne estraneo, ma che invece suggerisce intelligentemente un modo di sintonizzarsi con il tema del volume, laddove pare indicare attraverso la metafora del museo una funzionalità specifica del patrimonio mitico, quella di essere non una raccolta di argomenti e vicende variamente utilizzabili, un semplice deposito dunque, ma bensì uno strumento di interpretazione del reale che attraverso il transito dal passato al presente e dal presente al futuro, consentito da recupero e dal riutilizzo intelligente dei reperti e dei relitti di una storia millenaria, offre uno strumento per conferire senso e significato anche alla nostra contemporanea creatività. E che il mito sia più una modalità che un contenuto, appaiono confermarlo i saggi immediatamente successivi ove rappresentano la possibilità di utilizzo, in quel ben specifico modus interpretativo, di elementi non direttamente riferibili a ciò che comunemente si intende come mito (cfr. Harald Steinhagen) oppure che da tale contesto e patrimonio sono sottratti per percorrere finalità esegetiche nuove (cfr. in particolare i diversi saggi su Goethe). Tale approccio è poi man mano confermato ed in certo senso enfatizzato man mano che ci si avvicina alla contemporaneità, sia alla tragica modernità della prima metà del 900 che alla difficile transizione tedesca del secondo dopo guerra, allorquando il mito ripropone elementi di riflessione straordinari rispetto ad eventi straordinari, soprattutto se questi elementi vengono manipolati con consapevolezza (vedi in particolare il bel intervento di Anna Chiarloni su Brecth e l’Antigone, oppure quello di Eva Bianchelli sulla ricezione in Germania di Les Mouche di Sartre ed i suoi collegamenti con il mito di Oreste, ovvero quello di Lia Secci su Ilse Langer e la terza Pentesillea). Il libro ci traghetta così dalla modernità alla contemporaneità, sottolineando ancora una volta come il mito sia, per sua stessa natura, utilizzato quale chiave di interpretazione culturale della realtà anche nei suoi risvolti politici, come ad esempio nella lunga contrapposizione e nel contenzioso anche culturale tra le due Germanie (vedi Il mito di Odisseo nella letteratura teatrale della RDT di Frabrizio Cambi), fino alle difficili e traumatiche mutazioni dell’identità tedesca, di cui il saggio di Sara Barni sul teatro di Friederike Mayrocker e quello già citato di Matteo Galli sulla Rote Armee Fraktion si fanno indirettamente interpreti. Il mito sembra dunque essere strumento di conoscenza, e come tale è ormai universalmente riconosciuto anche al di là del suo utilizzo da parte di Sigmund Freud, ma non tanto, io credo come modulo di raccolta di eventi e vicende sintomatiche o paradigmatiche, ma come fondamento di una generale modalità rappresentativa, ed in questo percettiva, che la civiltà ha e fa di se stessa, modalità che, senza scomodare direttamente Nietzsche, ha trovato o meglio creato nel teatro la sua più funzionale articolazione linguistica e sintattica. Sembra dunque emergere l’idea, affascinante certo, che il mito costituisca una struttura non contenutistica ma prettamente linguistico/sintattica comune per la modalità espressiva detta drammaturgia, una sorta di benjaminiana lingua universale che, sbattuta sulla spiaggia della storia, si è articolata nei mille rivoli delle drammaturgie di genere e nazionali. E’ sintomatico che questo discorso, come già nel precedente libro da me recensito e qui in precedenza citato, venga ripreso da un contesto di studiosi di filologia e linguistica, quindi di specialisti che non hanno il teatro tra i loro interessi specifici. Sintomatico per due motivi, credo, il primo riguardante il fatto che spesso critici e studiosi di teatro sono affascinati fin quasi alla cecità dalla contingenza storica e sociale, perdendo così riferimenti estetici più generali, il secondo invece inerente il fatto che queste tematiche di sintassi e scrittura teatrale sono organicamente legate al tema della traduzione, della traducibilità tra lingue, coeve o di tempi diversi, e tra scritture, quindi legate al tema della interpretazione e della evoluzione del segno e del significato dei segni e dei linguaggi in generali. Al riguardo, avendo già citato Benjamin, non posso dimenticare le considerazioni emergenti dall’estetica complessiva e dalla specifica poetica drammaturgia di Edoardo Sanguineti, che da una parte riprendeva la necessità di una ripulitura della sintassi e della parola in funzione dell’emersione di un senso, di cui spesso l’evento e la narrazione mitica erano più vicini testimoni, e dall’altra enfatizzava la costante permanenza della traduzione come modalità espressiva e cognitiva in ogni forma di creazione artistica e letteraria, ma in particolare nella sua articolazione drammaturgica, ove il travestimento è la modalità ineludibile della trasposizione e della rappresentazione di un evento nel modo del dramma. Questo dunque mi sembra costituire l’elemento di maggior interesse di questa raccolta di saggi, l’aver cioè mostrato, in temperie e situazioni diverse, la capacità che ha il mito di incidere e determinare le modalità di espressione e quindi di conoscenza nel teatro tedesco, che anche per la natura della cultura tedesca così legata agli elementi della riproposizione e della interpretazione dell’antichità ne è stato molto influenzato, ma non solo. Spiace non aver potuto citare tutti gli studiosi che hanno partecipato a questo libro, e mi scuso con chi  non è stato direttamente menzionato, d’altra parte ho creduto opportuno soffermarmi su quelle che mi sono apparse le sue caratteristiche generali, nel senso di più ampio e generale interesse, contando che il poter suscitare appunto l’interesse del lettore per questa interessantissima ed utile raccolta di saggi, e quindi il favorirne con la modestia del mio intervento una migliore conoscenza, costituisca adeguato risarcimento anche per una omessa citazione.

AA.VV. Il mito nel Teatro Tedesco – Studi in Onore di Maria Fancelli,
a cura di Hermann Dorowin, Rita Svandrlik, Uta Treder,
Morlacchi Editore, Perugia, 2004, pp. 430.