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È l’ultima drammaturgia e regia di Marco Isidori che, nel più schietto modo del travestimento sanguinetiano, riscrive la più nota tragedia del Bardo, a quattrocento anni dalla morte, facendone nella più stretta e stringente “fedeltà” esplodere, o implodere se si preferisce, la struttura narrativa mediante inserti sia di scrittura, a partire dalla efficace “intromissione” di Giacomo Leopardi e della sua silenziosa luna, che di messa in scena. E, sempre in travestimento, scegliendo una omogenea direzione di linguaggio scenico che sembra individuare nel teatro delle maschere e dei burattini ovvero nella farsa o fiaba infantile, la chiave per portare alla luce, come con un appropriato scandaglio, il senso profondo di una tragedia il cui sviluppo tutti conosciamo e che viene così “ancorato”, oltre l’apparente narrazione di una dinastia e della sua fine sanguinosa, nei gangli

profondi della psiche e dell’animo umano, a partire dai rapporti di genitorialità e generazione.
Una scelta interpretativa forte e innovativa che asseconda ed è assecondata non solo dalla coerenza delle scelte drammaturgiche “storiche” della compagnia ma anche dai luoghi da questa prediletti, e non a caso, per la loro realizzazione, luoghi di cui “Marcidofilm”, l’attuale sede, è espressione piena.
Un teatro piccolo, oscuro come la mente e l’animo umano, in cui il palcoscenico è parte della platea stessa, talché interferenze e reciproche suggestioni, alimentano l’interazione in una sorta di comune respirare tra attore e spettatore.
Un palco, dunque, calato come la scena elisabettiana nel centro dell’esistenza, quasi ad intercettarne umori e prospettive, un luogo ed una scena appropriata ad un linguaggio dai molti riferimenti e dalle molte suggestioni, in pendolo continuo tra l’alienazione distaccata e l’immedesimazione, tra la dizione icastica e l’utilizzo “fonetico” della parola, e che tutte amalgama con equilibrio.
È dunque la scelta scenica che dà, in primis, la cifra di questa drammaturgia e insieme ne riceve il segnale più profondamente interpretativo.
Amleto, dunque, o meglio AmletOne è posto al centro di questa scena coloratissima, unico in nero tra costumi che a volte suggeriscono la “sospensione” del Paese delle Meraviglie, e può così esplorare l’intero pentagramma dei suoi sentimenti mostrando come l’esito nefasto sia la coerente conclusione di un percorso rispetto al quale la casualità è solo occasione di smascheramento, è in fondo il segno e il segnale della “scelta” consapevole del proprio destino.
Ne è, credo, evidenza, la scena finale del duello e delle plurime morti giocata in una sorta di numero acrobatico di trapezisti sospesi come pupazzi a cardini altrove manovrati, ma in cui le reciproche volontà scelgono di scegliere, e perciò di dare senso, di esprimere un giudizio ultimo non solo su quelle vite ma anche su quelle morti.
È infine una drammaturgia in un certo senso melodica che organizza le voci dei suoi protagonisti insieme alle voci del mondo che li circonda, di cui quella specie di coro di canne d’organo che spuntano dal sipario ad annunciare il dramma (una sorta di prologo di cantastorie) è metafora evidente.
Un ottimo lavoro, sia drammaturgico che di organizzazione scenica, in cui lo spazio ridotto è stimolo a movimenti organizzati e coerenti, tra quelle macchine sceniche “strampalate” e bellissime cui Marcido ci ha ormai abituato, e a cui la recitazione offre ulteriori spunti di riflessione e significazione.
Una recitazione quasi “geometrica”, come i movimenti registici, in cui la profondità dello studio è la porta principale in cui far transitare vocazioni che appaiono ormai forti e consolidate.
A partire dal bravissimo Paolo Oricco, l’AmletOne eterodosso che ci ha accompagnato con maestria in tutto l’evento scenico, e poi Maria Luisa Abate, una Gertude insieme distante e affettiva, e infine l’Isi un Claudio in cui crudeltà e interesse son come tenuti a bada e a distanza.
E poi il Polonio stralunato e ossessivo di Stefano Re, l’inteso Laerte en travesti di Valentina Battistone, l’Ofelia sospesa e quasi “virtuale” di Virginia Mossi, l’Orazio imperturbabile di Daniel Nevoso e i clowneschi Rosencranz e Guildenstern di Mario Elia e Francesca Rolli.
Assistenti alla regia di Marco Isidori sono Daniel Nevoso e Barbara Chiarilli, le luci sono opera di Francesco Dell’Elba e Cristian Perria, le scene e i costumi infine, bellissimi, di Daniela dal Cin.
Lo spettacolo, ovviamente produzione di “Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa”, ha inaugurato il teatro “Marcidofilm”, nome già di per sé emblematico, nel novembre scorso, è stato di nuovo in scena dal 18 al 31 gennaio e tornerà in scena dal 24 al 26 febbraio.
Una occasione per un pubblico che, anche l’altra sera, ha riempito ogni spazio della sala e consumato in lunghi applausi il suo evidente entusiasmo.