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È drammaturgia, questa di Lars Norén datata 1982, che si rifà esplicitamente e si riconduce quasi programmaticamente a quella grande tradizione scandinava che si dispiega da fine ottocento, con Ibsen e soprattutto Strindberg, fino alla nostra modernità con il loro epigono, ora un po’ dimenticato, Ingmar Bergman, una tradizione drammaturgica che intorno alla inesausta guerra dei sessi costruisce una sua singolare ricerca sulla incomunicabilità e su quella angoscia esistenziale divenuta segno della modernità prima e poi, in forme nuove ma ancora ben riconoscibili, della nostra contemporaneità. D’altra parte, poiché spesso il teatro più accorto si fa veicolo dei cambiamenti psicologici e sociali

anche quando sono ancora poco percettibili, “Demoni” sembra rappresentare una metamorfosi di quella stessa angoscia esistenziale che supera la stessa incomunicabilità tra sessi e tra esseri, incomunicabilità che comunque presupponeva e presuppone una tensione verso l’altro e un suo “riconoscimento”. Ora tale tensione sembra spenta e spento ogni vero interesse affettivo e sentimentale nella relazione e, in particolare nel rapporto di coppia, l’individuo si avvita sull’altro, ormai incapace di riconoscerlo affettivamente e psicologicamente, quasi a prosciugarne l’identità per farne una sorta di surrogato della sua incapacità ad essere nel mondo.
La fisiologia dell’incomunicabilità tende così a trasformarsi in patologia e l’assenza di tensioni relazionali autentiche e profonde ci priva di valori etici e di kantiano “giudizio”, per cui tutto si fa indifferente e conseguentemente lecito. Ogni desiderio sembra dunque diventare prima privo della misura che l’altro può fornire e, poi, indifferente ad ogni conseguenza come dimostrano anche recenti fatti di cronaca (uccidere o bere un bicchiere d’acqua diventano azioni “sovrapponibili”).
La famiglia e le relazioni di coppia rimangono comunque anche qui terreno privilegiato di indagine, quasi brodo di cultura principale di un generale slittamento o liquefazione di valori di cui la drammaturgia si fa specchio consapevole, coinvolto e coinvolgente.
Due coppie a confronto le cui reciproche e provocatorie interferenze inducono ad un processo di crudele smascheramento soggettivo in cui il piano onirico e del desiderio, con il suo correlato di sadismo e violenza, sembra improvvisamente balzare al centro della scena travolgendo schemi e consuetudini relazionali in nome di una affermazione di sé che usa l’altro come mezzo e in cui l’altro scompare come soggetto. Sull’orizzonte un non dichiarato enigma di genitorialità materna (ironicamente rappresentato dalle ceneri disperse dal protagonista sul corpo della moglie) e quindi del potere di riproduzione su cui si sono a lungo interrogati sia Ibsen che, assai più dolorosamente, Strindberg.
Su questo impasto la messa in scena dell’argentino Marcial Di Fonzo Bo introduce un doppio meccanismo di straniamento nella scrittura scenica, impegnata a richiamare matrici passionali mediterranee pervertite in quel contesto alieno, e nel meccanismo recitativo che, spesso sopra le righe, forza gli equilibri della drammaturgia che sembra così sempre sul punto di deragliare esplodendo.
Un doppio meccanismo che attenua il rischio, pur presente, che la provocatoria esibizione di linguaggio scurrile e di esplicite suggestioni erotiche si trasformi da stimolo all’approfondimento da parte del pubblico e alla conoscenza, in chiusura in una sorta di carapace su cui le provocazioni si spuntano o rimbalzano slittando verso il nulla.
Quindi, a mio avviso, più che un discorso sull’eros questa pièce è uno squarcio sull’assenza di eros, o meglio sull’assenza di quel cuscino affettivo e sentimentale che supporta la relazione con l’altro, senza il quale l’eros rischia di scivolare nel solipsistico, gratuito e autoreferenziale esercizio di un desiderio apparentemente libero ma in fondo incatenato al nulla.
Una drammaturgia complessa dunque, cui la messa in scena fornisce un contributo rilevante anche con elementi di interessante innovazione (la scenografia circolare e trasparente ad esempio che moltiplica gli orizzonti anche di significato).
Di qualità la recitazione dello stesso Marcial Di Fonzo Bo (Franco) e della coprotagonista Fréderique Loliée (Katarina), da elogiare per la consapevolezza ed insieme la spontaneità con cui affronta un personaggio complesso e tormentato. Insieme a loro non sfigurano i giovani Michele di Paola (Tommaso) e Melania Genna (sua moglie Gemma) alle prese con le angosce di una relazione mai chiarita.
Scene e luci di Yves Bernard, costumi di Anne Schotte, musiche di Etienne Bonhomme per la bella versione italiana di Annuska Palme Sanavio.
Un bel successo per questa collaborazione tra la “Comédie de Caen” e il Teatro Stabile di Genova, che conferma e consolida la sua rinnovata apertura al panorama europeo. In scena al Teatro della Corte dal 1° al 20 marzo. Una prima con grande attenzione e lunghi applausi.
Per chiudere merita una  segnalazione  l’ottima iniziativa in collaborazione con il Conservatorio Nicolò Paganini di Genova (“parole di note… prima dello spettacolo” questo il suo titolo) che ha portato alcuni bravi e giovani musicisti del conservatorio ad esibirsi, con risultati ottimi, nel foyer del teatro con la difficile musica dell’espressionismo tedesco.

Foto Leone