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È forse la drammaturgia più nota di Pier Paolo Pasolini, a Genova nella più recente messa in scena di Valerio Binasco già presentata al Festival di Spoleto lo scorso anno nell’occorrenza del quarantesimo anniversario della tragica morte dell’autore. Testo certamente complesso da cui Pasolini stesso ha tratto quasi contemporaneamente l’omonimo film in cui ha in un certo senso integrato la drammaturgia con suo specchio narrativo che ne capovolgeva, confermandoli, i termini simbolici e allegorici. Testo complesso perché in esso appaiono convergere suggestioni diverse e talora contraddittorie, ispirate anche dalle temperie del tempo in cui fu scritta (era il sessantotto) e che per questo non possono essere decontestualizzate, a partire dai riferimenti più specificatamente politici che andavano a riguardare una fase di ripensamento che profondamente implicava la generazione nata nel dopoguerra cui Pasolini sembra rivolgere uno sguardo quasi “atterrito”. Una riflessione che scoperchiava la mancata elaborazione

da parte della borghesia tedesca ed europea in genere del nazismo e degli orrori della guerra, una mancata elaborazione che Pasolini intuiva sarebbe stata pagata dai suoi figli, nella psiche e nella carne stessa, e sulla quale per di più prefigurava quelle trasfigurazioni indotte nel capitalismo industriale verso la finanziarizzazione che stiamo vivendo. Non si possono qui non ricordare al riguardo le analoghe ma successive intuizioni ed elaborazioni della cultura tedesca a partire dai lavori di Fassbinder.
Ma il teatro di Pier Paolo Pasolini, come il suo cinema nella definizione che lui stesso ne fece, è un teatro eminentemente lirico in cui le suggestioni sono filtrate dalla parola poetica e quindi significate ovvero deformate dallo sguardo soggettivamente estetico e poetico del suo autore che quelle stesse parole poteva caricare di uno spessore psicologico e intimo che va oltre ogni inquadramento storico o politico.
È questo aspetto intimo che, a mio avviso, non bisogna decontestualizzare pena la mancata percezione, in Pasolini e nelle sue opere, di una sofferenza e di un senso di estraneità rispetto al mondo che costituiva allora un potente motore di consapevolezza e insieme di capacità visionaria e profetica. Una sofferenza e una capacità che non poteva essere riconosciuta se nel contempo non si riconosceva (e allora non si poteva o voleva farlo) quell’omosessualità che informava l’esistenza e lo stesso sguardo artistico di Pier Paolo Pasolini.
Per questo decontestualizzare tale aspetto della personalità, soprattutto artistica, di Pasolini trasferendola tout court in una astorica contemporaneità nella quale l’omosessualità parrebbe essere ormai considerata una tendenza sessuale neutrale rispetto a tutto il resto, non riesce a mio avviso a coglierne la valenza profonda, drammatica da una parte ma propulsiva dall’altra della visione pasoliniana.
In effetti il non aver accettato e riconosciuto questo secondo aspetto, intimo, della sua opera portò, Pasolini in vita, anche ad un marcato distacco e diffidenza rispetto ai suoi esiti artistici, condannando in un certo senso lo stesso Pasolini ad una solitudine intellettuale che forse ne enfatizzò le tendenze sacrificali e di auto-punizione che possono, a mio avviso, essere lette ed essere state “anticipate” in parte della sua opera.
Molto significativa a questo riguardo mi sembra una affermazione di Giuseppe Bertolucci a presentazione di un video del 2005 su Pier Paolo Pasolini, quando dichiara che prima della sua morte per tutti lui era Pasolini, dopo la sua morte per tutti è diventato Pier Paolo, quasi ad indicare che solo la morte ha consentito di cominciare a superare quella cesura dolorosa.
Valerio Binasco è efficacissimo, dunque, in questa sua bella messa in scena scegliendo una assoluta fedeltà al testo drammaturgico, con la sola eccezione dell’espunzione dell’episodio dell’incontro con Spinoza effettivamente forse poco teatrale nella sua narrativa razionalità. Una fedeltà ribaltata fin nei ritmi dei movimenti scenici e nella suggerite tonalità liriche della recitazione e che evita, a mio parere giustamente, facili richiami al film successivo che evidentemente rispondeva ad esigenze linguistiche e significative diverse e, se vogliamo, più legate alla contingenza politica e sociale di allora.
Ma è efficace anche e soprattutto perché abbina alla fedeltà al testo una sorta di sguardo registico geometricamente distaccato, assecondato dalla multimedialità dei quadri scenici scanditi da proiezioni e sipari virtuali, uno sguardo che consente di percepire, del testo, le più profonde motivazioni, fin le pulsioni psicologiche ed esistenziali liricamente trasfigurate, oltre la narrazione e così denudando e portando alla luce le coerenti significazioni di una provocazione mai fine a sé stessa e così ricostruendo, nel transito scenico, la implicita tessitura drammaturgica.
Effettivamente dunque un dramma borghese, per ambientazione, riferimenti e protagonisti, ma è un dramma in cui la borghesia è rivisitata come paradigma universale di un meccanismo di de-umanizzazione dell’umanità tutta di cui è insieme colpevole e vittima, secondo la visione profeticamente tragica o tragicamente profetica del suo autore. Questo spettacolo diventa perciò una sorta di ripensamento, un nuovo approccio che consente di riavvicinare il passato integrandolo e così, forse, superandolo.
In scena Valentina Banci, Francesco Borchi, Fulvio Cauteruccio, Pietro d’Elia, Elisa Cecilia Langone, Mauro Malinverno, Fabio Mascagni e Franco Ravera. Un cast ben amalgamato e di qualità capace di sostenere e sviluppare il grottesco che anima il testo ed insieme enfatizzare la razionalità che pure, contraddittoriamente quasi, lo conforma e che la regia di Binasco sottolinea.
Le scene, già apprezzate, sono di Lorenzo Banci, i costumi di Sandra Cardini, le musiche di Arturo Annecchino e le luci di Roberto Innocenti.
Una co-produzione del Teatro Metastasio e del T.S. Friuli Venezia Giulia in cartellone al teatro Duse, tra le compagnie ospiti dello Stabile di Genova, dal 2 al 6 marzo, accompagnato da un incontro dibattito Venerdì 4 marzo coordinato da Marco Salotti e con l’intervento di Walter Veltroni.
Notevolissimo l’afflusso di pubblico e convinti i molti applausi dei presenti.