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Tony, Isoble e Thomas sono tre dipendenti in attesa del capo, Carter, che dovrà comunicare loro chi dei tre verrà licenziato. Uno solo. Come su un ring (e lo spazio scenico, curato insieme alla regia da Fabio Cherstich ammicca esplicitamente a questo), inizia un gioco al massacro nei confronti del debole per antonomasia, basso e grassottello, insicuro e goffo, Thomas.  Al Franco Parenti di Milano (via Pier Lombardo 14) va in scena il testo argutissimo di Mike Bartlett fino al 17 aprile, in linea con quella ricerca sulla nuova drammaturgia che da sempre contraddistingue questo teatro milanese. Difficile inquadrare in semplici etichette questo spettacolo, e forse è proprio in questa complessità che risiede il suo grande valore.  E’ la lotta per la sopravvivenza del debole in un mondo spietato, è la fredda e calcolatoria strategia di annientamento del forte, è uno spaccato di

dinamiche aziendali dei nostri tempi tra ipocrisia e cinismo, è la drammaticità finale in cui non arriva nessuna salvazione. E’ tutto questo insieme, ma a rendere rilevante lo spettacolo è il modo in cui questi cospicui filoni tematici sono condotti e annodati. Thomas è un debole avvolto nelle sue idiosincrasie, dice sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato, accetta di farsi bulleggiare. D’altro canto la forza di Isoble e Tony è nel loro essere spregiudicati, sexy, determinati, secondo quei valori che molta cultura aziendale (e in generale dei nostri giorni) esalta come requisiti indispensabili dei vincenti. Le loro parole sono doppie, celano la blandizie e il suo contrario, la violenza è nascosta sotto ostentata generosità, salvo poi sferrare il colpo di grazia impietoso e violento.
Sul ring si combatte a parole, quelle taglienti che si infilano nell’anima di Thomas annientandolo. Carter non arriva, così i tre possono continuare questo gioco al massacro in cui le distanze si accentuano sempre più. Ci sono tutte le strategie di distruzione psicologica (il mobbing, appunto), dalla richiesta del capo non detta al collega all’inadeguatezza dell’abbigliamento, dal physique du rôle ostentato al gioco sexy dei corpi scolpiti.
Poi arriva Carter, il capo. Ci si aspetterebbe che questa sorta di Godot che si è fatto attendere a lungo e che – a dire il vero- piuttosto inaspettatamente piomba in scena, possa portare una sorta di capovolgimento etico, il riscatto del debole verso i forti. Ma non è così. In scena come nella realtà, le cose vanno nel più scontato e triste dei modi: Carter si accanisce in punta di fioretto sul povero Thomas, ne ribadisce il suo essere inadatto, lo bistratta e lo licenzia.
Isoble e Tony esultano come in un duello d’altri tempi dove vince chi fa soccombere qualcun altro. La loro non è amicizia e neppure alleanza, è una simbiosi funzionale alla lotta per la sopravvivenza in quel mondo meta-etico in cui l’unica regola è trovare forme di sopravvivenza. Non c’è posto per la pietà, non è ammesso fermarsi a guardare chi ci sta accanto, ma – come dice Isoble nel monologo finale – è quasi quasi giusto così, chi non ce la fa deve rimanere indietro, deve essere eliminato dal gioco.
E il gioco si conclude con un improbabile duello fisico in cui, ancora e inesorabilmente, Thomas si accascia a terra e soccombe definitivamente.
Bartlett riesce ancora una volta a toccare i grandi temi del nostro mondo con un acuto gioco di parole e ruoli. Il suo è un teatro scarno, che per questo a trovato anche facili rappresentazioni radiofoniche  (“Not talking” è stato messo in onda dalla BBC nel 2007). Questa sorta di gioco di ruolo costituisce contemporaneamente potenti metafore delle relazioni spietate dei nostri tempi e d’altro lato sa concretizzarsi nella narrazione fedele del piano di significati, dei meccanismi amorali di eliminazione dei competitori per un ruolo sociale. L’esito ultimo – che rende realmente drammatica questa pièce – è la rappresentazione senza speranza di chi soccombe. Non c’è pietà né redenzione, ma uno spaccato chirurgico del dramma quotidiano, quello che non fa notizia ma che sconvolge la vita e l’anima delle persone.