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Dal 2 al 16 aprile il Centro Culturale Dialma Ruggero di La Spezia è impegnata con “Fisiko” rassegna festival di Teatro Danza promossa da FuoriLuogo di Renato Bandoli e ideata e coordinata da Michela Lucenti, coreografa e ballerina la cui sintonia con le migliori tendenze della danza contemporanea ne rappresenta non un punto di arrivo ma, bensì, la base per una ricerca che dal suo “Balletto Civile” si allarga e si feconda nel contatto con altre suggestioni e nuovi stimoli. Sono sette i lavori presentati in questa interessante rassegna, a partire dall’esordio con “Ruggito” l’ultima creazione coreografica della Lucenti per “Balletto Civile”, gruppo che sarà presente anche alla chiusura con “L’amore segreto di Ofelia”, coreografia di Steven Berkoff. Il teatro-danza è ormai una suggestiva forma di drammaturgia che si è man mano imposta sulle scene europee ed è andata arricchendosi

di reciproche contaminazioni con la drammaturgia più tradizionale, creando spettacoli che con agilità e spontaneità traghettano dall’uno all’altro versante della performance scenica suggestioni e speculari approfondimenti. È questo, a mio parere, anche il caso della rassegna Fisiko e dei suoi ideatori e protagonisti, per i quali, essa è soprattutto un momento di incontro reciproco prima ancora che con il pubblico.
Sabato 9 aprile è stato il turno di due spettacoli, diversi l’uno dall’altro ma legati dal comune denominatore della ricerca sulla capacità non solo espressiva ma anche direttamente segnica e simbolica del corpo, ed entrambi interessanti.

PRAVAHA (SPETTACOLO DI DANZA ODISSI).
Certamente l’humus culturale secolare da cui nasce questa forma di espressività indiana non è presente nel retroterra di un pubblico occidentale, ma Livia Porzio e Silvia Vona sembrano riuscire a farsene carico, in fondo offrendo il loro corpo danzante, che inevitabilmente incorpora i segni dell’occidente da cui emergono, come un ponte tra due sensibilità estetiche all’apparenza diversissime ma in realtà con punti di contatto sensibilmente condivisi. Questa coreografia dunque, che porta in scena e mette in movimento brani del mito storico e religioso indiano, in senso lato riesce a recuperare elementi rituali che la cultura occidentale più che abbandonare ha, nel procedere verso la sua specifica modernità, occultato in profondo fin quasi allo stesso suo incerto e ribollente inconscio. Un’opera dunque di disvelamento e recupero che si abbina alla ricerca di un equilibrio e di una armonia che ormai siamo portati a credere, chissà forse sbagliando, perduti per sempre.

HISTOIRE D’UN ART TRISTE
Questa coreografia del bravo Aziz El Youssoufi (nella foto), che già avevamo apprezzato in altri lavori della compagnia di Michela Lucenti, sgorga al contrario dalla contemporaneità che più direttamente ci avvolge, sia nella originale interpretazione dell’alfabeto di movimento proprio della cosiddetta danza di strada (break, pop, lock eccetera) sia nel suo utilizzo per narrare la storia della nostra alienazione, una alienazione che oltre che della nostra mente, si impadronisce (prima o dopo poco importa) anche del nostro corpo. Il corpo da simbolo concreto di schiavitù, in una società dominata dalla liquidità dei valori e insieme dalla concretissima relatività del denaro, si può così trasformare in veicolo di liberazione a partire, sembra indicarci il ballerino, dalla ribellione contro sé stesso o parti di sé stesso. Così nella bella scena finale questo corpo divenuto, attraverso la danza, finalmente consapevole di sé, pare avviarsi, in un affascinante ralenti sintatticamente assai cinematografico (da cinema muto intendo), verso la libertà. È un finale prudentemente aperto che forse gira la domanda direttamente a noi.
Entrambi gli spettacoli sono stati molto apprezzati dal pubblico che, come spesso accade a FuoriLuogo, ha riempito la sala.