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Una gabbia e fuori gli spettatori. Più che una gabbia una stalla, più che una stalla, un porcile...Vi è rinchiusa una donna legata e imbavagliata: due uomini la vengono a trovare, uno per legarla, l’altro per parlarle. In ogni caso è prigioniera. «Un cliente e una prostituta, un marito e una moglie, un maschio e una femmina chiusi in un luogo claustrofobico, rarefatto, intimista vivono il loro rapporto fisico e interiore con istinto sacrificale e perverso. Il maschio irrazionale, animalesco e violento, cerca di dominare la femmina secondo le proprie pulsioni istintive usando il denaro, la violenza e la passione. L’unica via di uscita è soccombere. Forse.» La parola “forse” in chiusura alle note di regia, è fondamentale

perché regala una possibilità diversa, una via di fuga, una speranza per l’avvenire. Finché ci sono uomini sensibili e attenti al tema delle violenze di genere come Antonello Antinolfi e Francesco Leschiera che hanno curato la drammaturgia, c’è qualche speranza. Mi capita sempre più spesso di assistere a letture sceniche e rappresentazioni sulle violenze di genere scritte da donne, dove il pubblico è prettamente femminile. Si cambia insieme agli uomini e questa rappresentazione scritta e diretta da uomini su un tema così delicato mi sembra un cambiamento di rotta significativo.  Il testo è liberamente tratto da “L’ora grigia e La chiave dell’ascensore” di Agota Kristoff. Uomini che rappresentano donne, che si immergono nella parola scenica di una donna: questo è un bell’omaggio all’universo femminile. La chiave dell'ascensore, scritto nel 1977, è la storia, drammatica e surreale di una donna tenuta sotto sequestro dal proprio marito che, con l'aiuto di un medico compiacente, infierisce su di lei sottoponendola a orrende mutilazioni. I due uomini arrivano al punto di privarla dell'uso delle gambe e a renderla cieca. Alla donna rimane solo la voce per gridare al mondo: - Ascoltatemi! Un grido sostenuto nell’invenzione scenica dai versi di una poesia di Marina Cvetaeva (Senza Titolo, 8 Dicembre 1913) L’ora grigia o l'ultimo cliente descrive il consumato rapporto di due personaggi, un ladro dalle imprese modeste e una prostituta. L’uomo vuole derubarla dei suoi sogni. (note Einaudi) Elaborazione drammaturgica di Antonello Antinolfi e Francesco Leschiera, mantiene intatto lo stile asciutto e crudele dei racconti ma lo rilancia sulla scena in una forma più dolce e poetica. La regia di Francesco Leschiera è fantasiosa, l’uso delle luci e delle musiche (ottime le scelte musicali e le elaborazioni sonore Antonello Antinolfi) regala passaggi evocativi. È bello vedere in scena fantasia e passaggi di toni fra luci e musiche. Il teatro è sempre il regno dell’invenzione scenica non solo dei ragionamenti. Un piccolo suggerimento per il futuro, una traccia su cui lavorare: accanto all’invenzione scenica, andrebbe arricchito l’impianto di movimenti e azioni che in alcuni passaggi risultano ripetitivi. Si comprende la necessità di rendere l’ossessività della situazione ma questa è già tutta nel testo. Le parole cadono come gocce in un pozzo profondo. E diventano macigni. I movimenti scenici non hanno bisogno di aggiungere altro, devono togliere. A teatro spesso si procede per sottrazioni. Sottrarre per aggiungere emozione. Sonia Burgarello, Alessandro Macchi e Matteo Ippolito, ben inseriti nel contesto scenico, usano con eleganza i passaggi di registro, modulando la voce con musicalità. Si avverte lo studio alle spalle. Un’ultima nota di merito a chi conduce e gestisce lo Spazio Tertulliano, in pochi anni questo spazio è diventato un punto di riferimento nel panorama cittadino: aperto alla contaminazione e alla multidisciplinarietà, capace di coinvolgere nuovo pubblico attraverso numerose proposte artistiche di qualità. Uno spazio in cui si dà voce a giovani compagnie e gli si offre la possibilità di continuare a sperimentare e ricercare come nel caso della compagnia Teatro del Simposio.

Milano, Spazio Tertulliano 17 Aprile 2016