Pin It

Torna sulla scena dopo circa diciotto anni quello che, a mio parere, è uno dei più interessanti “travestimenti” sanguinetiani e fors’anche, esteticamente, uno dei più ambiziosi, travestimento ancora inedito e per così tanto tempo lontano dai teatri, a conferma della tuttora inspiegabile sottovalutazione delle drammaturgie del poeta genovese, ma ancora potente e suggestivo nella sua capacità evocatrice. Torna soprattutto per merito, oltre ovviamente che dello Stabile Genovese che l’ha prodotto, dello stesso Andrea Liberovici che già a Spoleto nel 1998 era stato il promotore e stretto collaboratore di questa avventura scenica e che oggi, nel ricordo sempre vivo di Edoardo Sanguineti, cura una nuova

regia che di quel testo, le cui potenzialità di innovazione appaiono tuttora intatte, nell’aggiornato transito scenico è anche una nuova interpretazione.
Conserva però di quella matrice una comune capacità visionaria che direttamente sembra discendere da un modo di concepire il teatro come fenomeno etimologicamente (theaomai) visivo e dunque visionario, da cui l’adesione alla definizione, citata nel foglio di sala, che dello shakespeariano Macbeth dà Harold Bloom come “tragedia dell’immaginazione”.
La parola di Sanguineti, soprattutto quella concepita drammaturgicamente, è come tutti sappiamo fenomeno concreto, quasi fisico, è evento che occupa ed organizza la scena, plasmandosi e liberandosi nella effrazione e ridefinizione del testo classico nel qui e ora contingente del palcoscenico, e come tale può ovvero deve essere soprattutto, nella ineludibile relazione con la “rappresentazione” ed il pubblico, vista e guardata.
Da qui si muove, peraltro in piena e dichiarata libertà ed autonomia, la bella partitura sonora di Andrea Liberovici, ampia di rimandi e corrispondenze e ricca nelle suggestioni, che più che assecondare il testo in un certo senso lo combatte come un contrappunto e lo articola e lo struttura in una trama di suoni a controcanto della sonorità delle parola, una “musica per gli occhi” secondo una definizione che lo stesso Sanguineti coniò qualche anno prima di concepire questa drammaturgia.
Se la matrice è comune e preservata, l’esito scenico, però, è oggi con la nuova regia in parte diverso, trascritto o meglio traslitterato in una visione oscura e claustrofobica, di cui le scene enfatizzano gli effetti, una visione in cui la forza vitale di Macbeth e della sua Lady appare come prosciugata e vinta, quasi che il potere e la sua ricerca, in un mondo liquido e al tramonto dei suoi valori condivisi, si coniugasse solo con la morte prossima, anzi ormai presente.
Così Liberovici sceglie di sfrondare e minimizzare la presenza attoriale riducendola ai soli due personaggi principali, rimandando ad un altrove virtuale i loro referenti, ormai umbratili ed onirici protagonisti di una loro interiorità che tutto proietta ma in cui tutto pare ormai risolversi.
Colloca dunque i due protagonisti di quella tragica guerra, dinastica e di potere ma dai riconoscibilissimi tratti universali e ormai impossibile da combattere, in un mondo ctonio quasi fossero già morti, e li rende grotteschi e modesti comprimari che nella loro casa spoglia attendono solo di rendersi conto della fine, come due vecchi pensionati ormai soli che faticano anche a campare l’ordinario.
Sono, Macbeth e Lady, nel profondo del mare della loro coscienza, in un mare sulla cui superfice ancora galleggiano come lacerti i lasciti della loro vita, forse dei loro sogni (o incubi) ma certamente della loro colpa. Assume così un sapore ancora più acre la famosa battuta finale della vita come ombra recitata da un povero attore, uno scemo che racconta una storia “che è piena di rumore, e di furore, che però, poi, significa niente”.
Sembra quasi aver voluto, il regista, enfatizzare il confronto ed il contrasto tra l’esistenza, anche quella di ciascuno di noi, e la storia che corre e scivola comunque, tra i fantasmatici desideri che  questa suscita e l’umanità che va perdendosi, un confronto ed un contrasto che può essere percepito, quasi in controluce, anche rispetto alla prima regia di Liberovici (per chi ha visto quello spettacolo), quasi ne fosse uno sviluppo negativo ed un esito nefasto, ma in cui in fondo rimane la forza del teatro che vuole e riesce ad essere specchio della vita.
In scena Paolo Bonacelli e Elisabetta Pozzi interpretano efficacemente queste scelte registiche, nella mimica, nella sonorità delle battute e nella stessa presenza scenica, affaticata e talora affannosa ma sempre padroneggiata. Li accompagnano in video Eros Pagni (Banquo) e Marco Sciaccaluga (un incombente Duncan vivo e poi morto che travolge gli incubi di Macbeth), nonché le streghe, Dely De Majo, Sierha Bonnette, Daniele Madeddu e soprattutto Judith Malina la cui presenza anche solo in suono costituisce un indubbio omaggio ad una storia teatrale irripetibile.
Andrea Liberovici, ovviamente, ha curato anche la spiazzante e straniante scenografia acustica e le musiche, in stretta collaborazione con Guido Fiorato che le integra con le sue scene e costumi. Le luci, essenziali in questa rappresentazione visiva e visionaria, sono di Fausto Perri.
Ha esordito al teatro Duse di Genova il 19 aprile, con successo indubbio per partecipazione e applausi, e sarà in scena fino all’8 maggio.

Foto Porto