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Ovvero “venendo l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce a manovrare nelle acque territoriali dei cantanti Marcido”, torna al Teatro Gobetti di Torino tredici anni dopo il felice esordio, e come l’esordio è un felicissimo e graditissimo ritorno. È infatti, a mio avviso, una di quelle poche drammaturgie che sia riuscita a penetrare il dedalo della scrittura di Joyce e, attraverso questa, il suo dedalico pensiero, scoprendone anfratti e risonanze, rispecchiamenti ed echi tra contemporaneità e spirito storico. Joyce, appunto, e soprattutto quel personaggio proteiforme che occupa con il suo monologo l’ultimo capitolo dell’Ulisse, sono l’oggetto di questa trascrizione scenica. Molly Bloom infatti non è un personaggio autonomamente strutturato ma, a mio parere, in certo senso rappresenta ciò che l’uomo (inteso come maschio) si immagina sia una donna, e proprio per questo è

un piano narrativo che inevitabilmente si scontra ed interferisce con gli altri due piani cognitivi presenti nella narrazione, cioè cosa debba essere (sempre dal punto di vista anche inconsapevole del maschio) una donna ed infine cosa è in effetti la donna, il tutto in un girotondo di mascherature e mascheramenti, in cui da ultimo, storicamente, la donna stessa si è in parte e per molto tempo identificata o dovuta identificare.
Marco Isidori coglie queste contrapposte interferenze e soprattutto intuisce il flusso cognitivo e psicologico che scorre non nella scrittura di Joyce, maestro nell’interpretare sintatticamente il pensiero che si compone senza una apparente finalità, ma bensì sotto la sua scrittura, un flusso di pensieri e sensazioni sue e nostre che la scrittura non incorpora direttamente ma che nel contempo riesce a mostrare in trasparenza, come il letto ricco di vita su cui scorre un torrente opaco.
Non solo le coglie ma riesce ad esprimerle drammaturgicamente rendendo palese la polisemia e la polifonia che costituisce l’essenza del personaggio Molly Bloom, su cui convergono tempi e spiriti diversi, quasi in ironica summa insieme quotidiana e universale della lotta dei generi. Joyce in fondo non vuole aiutare la consapevolezza femminile, di cui siamo man mano e contraddittoriamente testimoni oggi, ma suo malgrado vi inciampa e inconsapevolmente se ne fa veicolo.
La magica scenografia di Daniela Dal Cin, riproposta fortunatamente nella sua integrità, costruisce dunque il luogo di questo rito laico, in una sorta di polittica processione di figure ciascuna delle quali è la rifrazione sonora e luminosa di quel misterioso personaggio, di quella plurima Molly Bloom nascosta tra le righe dell’Ulisse.
Come nella scrittura del grande irlandese, infatti, la scenografia chiude interamente la scena ma nel contempo lascia intravvedere un altrove ancora oscuro su cui proiettare ed articolare la percezione dello spettatore.
L’effetto è un movimento scombinatorio che dà un senso rinnovato ma profondamente autentico e fedele alla narrazione scenica, quasi che le otto voci della partitura di Isidori riuscissero ad essere più unitarie e più armonicamente sinfoniche dello stesso monologo letterario.
In effetti, come la luce rifranta, ciascuna voce è diversa ma tutte sono la stessa cosa, sono cioè la luce prima di attraversare il cristallo della drammaturgia. È quello che altrove si definirebbe un effetto paradosso, cosicché moltiplicando e aumentando parossisticamente i suoni e le voci (la Compagnia definisce il suo lavoro “diabolico parossismo fonico”) si riuscissero finalmente a sentire i sussurri del sottofondo.
In questa peripezia affascinante, poi, l’effetto di straniamento prodotto dalla scenografia, da una parte, e dagli inserti musical-canzonettistici (come non citare “Granada” che chiude lo spettacolo), dall’altra, offre un’ulteriore leva per tentare di separare, scardinandoli, i piani della narrazione di Joyce.
Ma l’ultimo grimaldello è senza dubbio la gestione della scrittura scenica, che il drammaturgo “dirige” dalla platea come da un golfo mistico, e, all’interno di questa, dalla gestione della recitazione, sempre armonica nella sua pluralità di contrappunti, ed in cui voce e corpo assecondano come le note su un pentagramma l’effetto pittorico e figurativo dell’insieme.
Su tutti Maria Luisa Abate che dal centro del polittico sembra ricondurre a sé, impercettibilmente ma con forza straordinaria, i movimenti e le voci di tutti, e con lei Paolo Oricco, un vero “primo violino. Ma bravi anche gli altri, Stefano Re, Valentina Battistone, Francesca Rolli, Virginia Mossi, Daniel Nevoso e Margaux Cerutti.
Sto ovviamente parlando Della Compagnia “Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa” tornata a questo suo famoso spettacolo riproposto nell’ambito della stagione della Stabile di Torino, dal 3 all’8 maggio.
La regia è, come consueto, dello stesso drammaturgo Marco Isidori, e detto delle scenografie di Daniela Dal Cin, va citata anche Sabina Abate per le tecniche.
Tredici anni dopo aver conquistato il premio Ubu per la scenografia (la cosiddetta Grande Conchiglia) lo spettacolo conferma tutta la sua bellezza ed attualità ed ha riscosso un meritato grande successo, con applausi lunghi e ripetuti, e anche qualche ovazione di entusiasmo. Moltissimo pubblico giovane presente.

Foto di Michele Tomiuoli