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Ogni spettacolo importante pone, implicitamente o esplicitamente, dei problemi che riguardano anche l’estetica complessiva che soggiace ad una determinata produzione. Così sono spesso gli spettacoli del regista palermitano Claudio Collovà, regista colto e di grande sensibilità, i quali appaiono sempre più profondamente meditati prima che realizzati in scena. Non è poco ed anzi è garanzia di serietà. Così è stato per i lavori costruiti sulla scrittura di Elias Canetti, così per quelli costruiti su Joyce e Shakespeare, così è anche per lo spettacolo “Horcynus Orca, transito e ricongiungimento” che, costruito su una lettura intelligente e, si direbbe quasi, innamorata del grande romanzo di Stefano D’Arrigo, Horcynus

Orca (1975), si è visto sulla scena del Teatro Biondo di Palermo dal 6 al 15 maggio per l’interpretazione di Vincenzo Pirrotta (un “Caitanello” ruvido, tenero, rabbioso, eppure sempre misurato e di felice stilizzazione), di Manuela Mandracchia (prima maga potente, sensuale seduttrice, guida marina e levatrice Ciccina Ciccè, poi fantasma amoroso della madre, ma sempre all’altezza della estrema complessità di tali ruoli) e di Giovanni Calcagno (ben scelto nel ruolo di ‘Ndria Cambrìa che sa interpretare con consapevole rispetto della sua densità simbolica). Uno spettacolo meditato dunque: pensato a partire da un confronto serrato, consapevole e felicemente visibile con i meccanismi narrativi e mimetici che caratterizzano la scrittura narrativa rispetto alla drammaturgia. Non si tratta di una semplice “riduzione”, di un passaggio da narrativa a drammaturgia, si tratta piuttosto – come crediamo sia giusto fare - di una riscrittura che elimina (non asciuga) dal testo il respiro del racconto e si concentra su un’azione o, meglio, sul dispiegarsi di un unico percorso di consapevolezza che porta il protagonista a ritornare in Sicilia (dopo l’8 settembre ’43, da disertore) attraversando lo stretto marino di Scilla e Cariddi, a farsi quindi riconoscere dal padre, a recuperare il senso profondo della propria storia personale e familiare, fino a giungere al senso della tragedia, della morte e della sua stessa morte, ultimo ed estremo ricongiungimento. Un solo movimento, in tre respiri. Eppure tutto questo produrrebbe, ordinariamente, soltanto un buon spettacolo tratto, con intelligenza teatrale, da uno straordinario romanzo; ciò che invece rende importante questo lavoro di Collovà è la capacità di questo regista di rendere con una voce nuova, una voce autonoma rispetto a quella (pur affascinante) di D’Arrigo, la meravigliosa ricchezza del romanzo: una voce nuova, impastata di tutti quei colori che sono tipici del suo teatro, della sua potente visionarietà, del suo amore per la pittura (dell’immaginario dei preraffaeliti più di tutto) della sua capacità di evocare mondi interi attraverso squarci di luce e di buio. Ed è doveroso citare i nomi del resto della compagnia: Enzo Venezia che cura ancora una volta scene e costumi (scene di straordinaria bellezza e centrali nel costruzione dello spettacolo); Nino Annaloro per il disegno delle luci, Giuseppe Rizzo per le musiche, mentre i video, intensi, poeticissimi, sono di Alessandra Pescetta). Eppure non tutto di questo spettacolo è sempre, ugualmente convincente: ciò che suscita qualche perplessità è un eccessivo, visibile, autocompiacimento riguardo alla bellezza “pittorica” di certi segmenti dello spettacolo, veri e propri quadri “scenici”, un soffermarsi che, seppure è comprensibile (perché davvero si tratta di quadri meravigliosi), tuttavia non si giustifica del tutto nel contesto dell’economia complessiva e del ritmo di questo lavoro.

“Horcynus Orca. Transito e ricongiungimento”  di Stefano D'Arrigo.
Drammaturgia e regia di Claudio Collovà: con Vincenzo Pirrotta, Manuela Mandracchia, Giovanni Calcagno; scene e costumi di Enzo Venezia; luci di Nino Annaloro; musiche di Giuseppe Rizzo; inserti video di Alessandra Pescetta.
Produzione Teatro Biondo Palermo