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La ventunesima “Rassegna di drammaturgia contemporanea” dello Stabile di Genova chiude con questa drammaturgia aspra e ruvida del tedesco Philipp Lohle, firma giovane ma già importante del panorama teatrale europeo di oggi. Una drammaturgia ruvida e aspra, talora consapevolmente ed catarticamente “fastidiosa”, che, all’interno di uno sguardo apparentemente sociologico in cui la Germania è assunta come metafora dell’occidente, almeno europeo, e con pennellate “noir”, ci parla d’altro, parla direttamente alle nostre profonde, intime ed irrisolte oscurità contemporanee. Ne emerge la percezione di una Società del Simulacro, che ha sostituito l’essere con l’avere per cui ciascuno di noi è diventato ciò che ha, ciò che “possiede” per ruoli e gerarchie sempre più rigide, e non più ciò che è, e ciò che ha non è più sotto il suo controllo. Così il sentimento dominante di

questa società liquefatta è ormai l’angoscia e la paura, l’angoscia di perdere una identità fittizia che non ha più radici dentro di noi ma solo al suo esterno.
Due coppie “normali” vicine di casa, una delle quali appena arrivata nell’appartamento liberatosi per il recente suicidio del suo inquilino. Un equilibrio già precario che viene definitivamente spezzato quando la prima coppia, soprattutto per volontà della moglie, accoglie ed ospita un profugo di pelle scura fino al tragico colpo di scena finale.
attorno gironzola per il palcoscenico un io narrante, una sorta di  “raissoneur” pirandelliano dall’identità ondivaga  che tira le fila del procedimento drammaturgico svelandone i non detti, i nascosti recessi.
Questa enigmatica guida ed il fatto che il profugo mai si vede in scena ma è solo “raccontato”, è una sorta di interna proiezione, sembrano dunque confermarci che l’oggetto della sguardo non è tanto la turbolenza di una Società impreparata ad un evento epocale, ma soprattutto la nostra interiorità fragile e sottomessa ad iperboli spaventose e incontrollate fino all’implosione.
Una interiorità fatta di paure che non trova più ristoro e pace neanche nell’arcaico meccanismo del capro espiatorio, così ben descritto da Girard e che pure ritualmente e stancamente si ripropone di continuo, oggi in particolare nel “diverso” e nello “straniero”, perché non possiede più sé stessa.
È come se rifiuto e solidarietà fossero, in questa narrazione, diventati speculari simulacri di una umanità (intesa sia come entità che come sentimento) vera ma perduta, che si può alimentare solo di affettività radicate in una identità essenziale ed esistenziale il cui filo stiamo perdendo. Come se sia l’uno che l’altra apparissero falsi e ingenui insieme, senza la forza di una idea autentica del mondo e di noi stessi.
Una drammaturgia carsica che scava e solleva domande opportune, che ci pone di fronte ad una riflessione finalmente consapevole di ciò che siamo, di ciò che siamo diventati e del mondo che abbiamo costruito. Una riflessione che può essere una occasione per ribaltare e recuperare.
È l’unico percorso che, di fronte allo scandalo e alla rabbia che con pervicacia questa drammaturgia cerca di suscitare, sembra potersi proporre per recuperare, con la nostra intima umanità, anche una società ed un mondo altrimenti in declino, dominato da paure e precarietà, da abnormi diseguaglianze e da insopprimibili sommovimenti.
La regia di Mariagrazia Pompei, che si avvale della traduzione di Umberto Gandini, non si sottrae alla prova e sottolinea gli elementi profondi della drammaturgia con una messa in scena scarna ma come dominata e occlusa dagli oggetti che la occupano e che gli attori continuamente spostano quasi cercando di farsi largo, di trovare uno spazio per sé stessi, una spazio sempre più ridotto che solo nel finale pare liberarsi, quasi una esplicitazione figurativa delle maschere e dei rituali che ci dominano.
In scena Fiorenza Pieri, Giordana Faggiano, Duilio Paciello, Giuseppe De Domenico e Giulio Mezza riescono ad esprimere quel male di vivere che ormai molti anni fa un Cesare Pavese purtroppo inascoltato aveva intercettato, ovvero quella rabbia pasoliniana cui non sembra estranea la tessitura narrativa, pur così diversa, di Philipp Lohle.
Uno spettacolo di grande forza, in scena alla Piccola Corte fino al 9 luglio, quando la rassegna 2016 chiuderà. Applausi intensi ma forse anche un po’ spaventati.

Foto Lanna