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Un festival singolare questo, organizzato da Kronoteatro di Albenga e giunto alla sua settima edizione, immerso nella fertili coltivazione della piana che si apre tra monti, cielo e mare quasi a ricordarci che il teatro è anche fatica concretamente fisica, è, quando è vissuto pienamente, sudore speso a costruire un futuro, il futuro della mente che si accompagna al futuro della nostra esistenza nel mondo delle cose. Non serve ricordare Artaud e la sua crudeltà/crudezza del sentire il teatro a partire dalla propria carne, basta spesso assistere e partecipare alle peripezie che transitano sui palcoscenici. Quelli, i palcoscenici intendo, di “Terreni Creativi” sono quasi “inventati” tra serre e magazzini, sono

appoggiati e solidamente ancorati ai luoghi della fatica che sono paradossalmente e fortunatamente anche luoghi di grande creatività.
La seconda giornata del Festival che si è svolto il 3, 4 e 5 agosto, dunque quella del quattro, è stata impegnata da un trittico di giovani esperienze nate e cresciute in Toscana ma la cui eco ha ormai superato i confini locali per assumere una valenza più ampia.
Questi gli spettacoli.

REQUIEM PER PINOCCHIO
Simone Perinelli, che ha scritto la drammaturgia e la dirige, è in scena da solo, e solo con un tavolo e un microfono, ma quel luogo solitario che è il palcoscenico si riempie improvvisamente e da subito di molte voci e molte suggestioni che articolano e moltiplicano lo spazio ed il tempo della drammaturgia. Pinocchio è ancora una volta la cartina al tornasole dell’essere umano e del nostro “esserci” nel mondo, è ciò che fa “impazzire” la maionese della vita e ci mostra le sue difficoltà e le sue crudeltà. Pinocchio vuole tornare ad essere un burattino perché essere un bambino, e poi un uomo vuol dire perdere la libertà e con lei la felicità. Perinelli con questa drammaturgia ha la capacità di scoprire il senso profondo di quella narrazione che è, forse, anche una lucida denunzia del progressivo slittamento delle nostre Società borghesi. Lo fa distorcendo in grottesco e ribaltando nell’ironia i suoi protagonisti cosicché Mangiafuoco è buono e la Fatina Turchina invece un personaggio ambiguo e contorto e inquietante. Bravo nella scrittura che il transito scenico enfatizza nei suoi ritmi diacronici, Simone Perinelli mostra una maturità recitativa inaspettata che mescola e ridefinisce i movimenti del gioco infantile aprendo brecce nelle consuete rigidità di maschere e luoghi comuni progressivamente “svelati”. Un impegno faticoso e ambizioso molto ben assolto in scena. Prodotto dalla compagnia “Leviedelfool” si avvale di suono e luci di Isabella Rotolo e del progetto grafico e foto di Guido Mencari.

IL GIRO DEL MONDO IN 80 GIORNI
All’apparenza un divertissement scenico che riscrive in forma di gioco di ruolo, da tavolo o televisivo che si preferisca, il famoso romanzo di Jules Verne. In realtà, a mio avviso, una sorta di smontaggio drammaturgico dei meccanismi di quella narrazione forse a sondarne i referenti costitutivi ovvero, se si vuole, i riferimenti ideologici di uno sguardo sul mondo sempre dall’alto in basso. Costruito con ritmo e ben recitato lo spettacolo coinvolge e talora sorprende per la vivacità non superficiale con cui si confronta con una storia ben più significativa di quello che vuol farsi apparire. La gestiscono con efficacia in scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Mattia Tuliozi in una regia collettiva, ricca di sorprese e calembours, di “Sotterraneo” che lo produce. L’adattamento drammaturgico è d Daniele Villa, le luci di Marco Santambrogio e il sound design di Mattia Tuliozi.

CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO
Chi viaggia in treno conosce molto bene questa frase, meccanicamente gridata dagli altoparlanti delle stazioni e per le situazioni più diverse (sospensioni, ritardi e quant’altro). Qui offre l’occasione per una acuta drammaturgia che, oltre la facile sovrapposizione metaforica tra “vita” e “viaggio”, si incarica soprattutto di “guardare” il mondo che non viaggia, quello che gravita nelle stazioni praticamente senza mai veramente partire, anche se qualche volta su un treno ci sale effettivamente. Così la stazione ferroviaria diventa il luogo di chi è rimasto indietro, la metafora dell’abbandono, delle speranze, del futuro, del proprio passato e quindi anche del proprio presente. Si affollano così davanti ai nostri occhi personaggio grotteschi, carichi di disperazione e feriti nella stessa capacità di amare la vita. Il loro stare lì, fermi, offre però loro uno sguardo sempre più acuto sugli altri, quelli che ancora partono e che nei loro occhi si riflettono per un istante o per sempre. A mio avviso uno spettacolo intenso che supera di slancio ogni ricaduta sociologica, pur presente ovviamente nella sintassi scenica, per tentare di avventurarsi nelle zone più profonde della nostra contemporanea e liquida in-consapevolezza. Un bello spettacolo dunque, anche divertente talora, della compagnia “Gli Omini” che per un mese ha frequentato la stazione di Pistoia incontrando i suoi “abitatori”. In scena Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini confermano una crescita ed una maturità ormai da molti riconosciuta, che evita cabotinaggi e organizza coerentemente voci e mimica. Drammaturgia e regia degli stessi protagonisti affiancati da Giulia Zacchini. Una produzione Associazione Teatrale Pistoiese che ha coprodotto anche lo spettacolo precedente.
Una bella serata che va a merito degli organizzatori di Kronoteatro e del suo Direttore Artistico Maurizio Sguotti, che con pervicacia difendono tra mille difficoltà anche economiche una esperienza cha si è ritagliata un meritato ruolo nel circuito dei Festival estivi italiani. Ma purtroppo questa esperienza è oggi a rischio per la ormai solita carenza di risorse e di attenzione da parte delle istituzioni locali e nazionali, e questo nonostante i riconoscimenti ricevuti, ultimo il premio attribuito a Kronoteatro da Radicondoli Festival. Ci auguriamo possano proseguire, oltre la prossima stagione invernale, anche con la prossima edizione del Festival, la ottava, a beneficio del teatro in generale e di quella comunità in particolare, perché se, come abbiamo detto il teatro è anche fatica e lavoro, non va dimenticato che è in grado tra le altre cose di produrre ricchezza e ricadute economiche sul territorio.