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La cucina come metafora, ma non tanto del mondo, quanto piuttosto delle esistenze che riempiono ed organizzano il mondo degli uomini e delle donne, un mondo in fondo artefatto costruito su relazioni non sempre equilibrate ma che non sfugge al legame primario che vita e cibo condividono e che insieme li lega strettamente. Così questa drammaturgia dell’inglese Arnold Wesker, la prima e forse ancora la più famosa delle sue numerose drammaturgie, riesce quasi naturalmente a prestarsi e a piegarsi a più letture che inevitabilmente superano il piano più immediatamente sociologico e politico per scivolare in un approccio, latu sensu, esistenziale se non addirittura metafisico.

Questa è, a mio parere, la sorpresa della messa in scena di Valerio Binasco che appoggiandosi ad un testo del 1957 (un altro mondo si direbbe) intercetta un disagio molto contemporaneo, il disagio che attraversa esistenze segnate dall’assenza e dalla persistente precarietà, esistenze in cui sfugge un sicuro fondamento di valori e che appaiono trascinate nell’apparenza di relazioni etero-guidate di cui sempre meno percepiscono un senso ed una finalità condivise o addirittura condivisibili, un mondo infine segnato nella sua stessa carne da una precoce implosione dei sentimenti.
Una drammaturgia di non facile gestione in scena, per gli innumerevoli conflitti che l’attraversano, e che Binasco ben padroneggia utilizzando gli schematismi delle maschere e talora i ritmi frenetici del vaudeville, dentro ai quali i personaggi recuperano un equilibrio sempre messo in discussione.
Una farsa tragica, in fondo, in cui si sorride e anche si ride e attraverso la quale lo stesso sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la ribellione che provoca si ancorano a valori più universali che li trascendono dandogli insieme sangue e sostanza.
Una sera a sbirciare nella cucina di un grande ristorante (un lavoro che in gioventù Wesker ha direttamente sperimentato) può così diventare dunque uno sguardo aperto su noi stessi, sul nostro immediato passato e su un futuro liquido.
Alla fine con la ribellione del cuoco Peter, che come un vecchio luddista danneggia il ristorante, qualcosa in quel meccanismo si rompe e la drammaturgia nella visione di Binasco resta, più che aperta, sospesa sul vuoto che ha scoperchiato.
Un grande impegno registico ma anche un grande impegno produttivo del Teatro Stabile di Genova che vede in scena 24 attori che, per ragioni di spazio, non citiamo singolarmente ma accomuniamo tutti nell’apprezzamento per la qualità della loro recitazione.
Ottima la versione italiana di Alessandra Serra come ottimo il contributo di Guido Fiorato, per le scene multiple e sovrapposte, di Sandra Cardini per gli azzeccati costumi, di Arturo Annecchino, per le musiche e, infine, di Pasquale Mari per le luci.
In scena al teatro della Corte dal 18 ottobre al 6 novembre, rappresenta un’apprezzabile apertura di stagione.

Foto Caroli