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Margherita Rubino trasla in drammaturgia il  racconto di Claudio Magris ma ne preserva la fitta e intricata trama linguistica, raffinata e sonora, in cui le parole sembrano armonicamente intrecciarsi come una rete lanciata nel vuoto apparente dell’esistenza per intercettare e imprigionare un senso perduto ma mai dimenticato. Il mito di Orfeo e Euridice, pur ridenominato nel segno di una contraddittoria modernità, è così da entrambi custodito e preservato nel suo più profondo e rinnovato lascito significante, una struttura intatta anche nella novità di un io narrante apparentemente ribaltato e agito attraverso la figura femminile. Apparentemente perché in realtà Euridice appare costruita come uno

specchio in cui si riflettono le contraddizioni del maschio che ne immagina sentimenti e tensioni, talora più sue che della amata compagna.
Un mito di amore che attesta paradossalmente ancora una volta la difficoltà della relazione prossima tra maschile e femminile, maschile e femminile che appaiono così sopravvivere solo nella reciproca lontananza e incomprensione.
La morte, sia vissuta nell’Ade degli dei e o nella fantomatica “Casa di Riposo” gestita con mano ferma da un altrettanto fantomatico Presidente, sono così il segno metaforico di una lontananza forse incolmabile che lo slancio lirico di questo moderno ma sempre “incompiuto” Orfeo può superare solo precariamente, perché è proprio di quella lontananza che sembra egoisticamente e compulsivamente alimentarsi.
Il mito è dunque qui, in mezzo a noi, intatto e enigmatico, ma Magris compie uno scarto significativo e intenso. Non sarà dunque Orfeo, per troppo o troppo poco amore non importa poiché soprattutto oggi i comportamenti che ne scaturiscono sembrano confondersi ed intrecciarsi fino a sovrapporsi, a decidere di girarsi per guardare, bensì sarà questa nuova Euridice, forse figlia di nuovi  tempi, a chiamarlo per indurlo a girarsi perché percepisce e intuisce nell’amore del suo compagno venuto a cercarla, una assenza.
È l’assenza del suo proprio sé, che il compagno non sembra riconoscere impegnato come è a viverla ancora una volta come lo specchio cui narcisisticamente crearsi, il sé che Euridice per una volta rifiuta di sacrificare e che rivendica un attimo prima di ritornare alla luce. La trama delle parole così si spezza e vita e morte tornano a separarsi, diverse ma così profondamente simili, ai due lati dello stesso specchio.
Una narrazione intensa, arricchita forse dalle dolorose esperienze autobiografiche dell’autore, che non svela il mistero ma quasi lo circuisce alla ricerca di una via di uscita che forse un giorno si mostrerà a quell’uomo e a quella donna insieme.
La regia di Daniela Ardini, ad un prova impegnativa, è all’altezza ed evita strappi in quella delicata trama quasi custodita negli ampi panneggi bianchi della scenografia di Giorgio Panni e Giacomo Rigalza. In scena, una intensa Elisabetta Pozzi amalgama il proprio recitare a quel sé perduto del personaggio, quasi sorvegliata nell’ombra dalle elettriche musiche di Daniele D’Angelo. Belli i costumi di Elisabetta Zinelli.
Una produzione di Lunaria Teatro, una realtà che vediamo crescere anno dopo anno, ospite dello Stabile di Genova al teatro Duse dall’11 al 15 gennaio. La prima è stata molto a lungo applaudita.