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Danio Manfredini torna su un suo antico progetto, nato per il cinema, e lo ripropone in una nuova e più agile versione che nel transito drammaturgico sembra compattarne e insieme distillarne il senso profondo, il senso di un transito disperato dell’esistere. Il cinema Cielo è ispirato evidentemente a una di quelle vecchie sale a luci rosse in cui esistenze allo sbando, deiettate come residui di naufragi sulle spiagge dell’umanità dolente, decantavano nascoste agli occhi ipocriti dei più e per questo erano tollerate, anzi forse e per di più erano utilizzate in sorta di capro espiatorio per riscattare il disincanto dei “normali”. Un luogo dunque di angeli caduti e decaduti, metafora angosciosa e inaccettabile dell’umanità stessa, ed un angelo caduto, anzi un angelo mandato in “missione”, di nome Divina ne è appunto il protagonista ingenuo e per questo perspicace, un testimone che si

offre per riscattare, con la propria stessa sofferenza e l’infinita disponibilità di amore, la sofferenza altrui.
Ed è appunto in Divina che scopriamo paradossalmente il filo rosso, un filo di Arianna, che ci conduce in questi inferi angosciosi ed angoscianti, talora tanto dolorosi da fare allontanare anche lo sguardo più disponibile e aperto, e insieme ce ne conduce fuori, in salvo.
Infatti è proprio in questo mondo di disperazione, di esistenze perdute di cui l’omosessualità è il segno di un rifiuto subìto, un mondo che ci ricorda le sintassi sofferte e sofferenti di Genet e soprattutto di Fassbinder, è in questo mondo di anime pervertite dal dolore, sia quello di una madre che rifiuta, di un padre assente, di un deserto di valori e legami affettivi che stabilizzano e riscattano, è in questo mondo che, oltre ogni diagnosi psicologica o progetto sociologico, scopriamo qualcosa che tutti ci accomuna.
Danio Manfredini, conducendoci per mano ma quasi trascinandoci oltre la nostra volontà, ci fa infatti scoprire che anche sotto la sofferenza non riscattabile e la perdita non recuperabile, sopravvive un nucleo irriducibile che, ove svelato come sa fare la sua scrittura e la sua indubbia sapienza drammaturgica, produce comunque poesia e talora grande poesia.
Ha scritto Jean Genet, che ha ispirato l’originale trama testuale e sonora di Danio Manfredini, ne Il Funambolo: “Il tempo che scorre non appena ha inizio l’evento teatrale non appartiene ad alcun calendario ufficiale…[e]…fa crollare le convenzioni storiche imposte dalla vita sociale e insieme, di colpo, le convenzioni sociali: a vantaggio non di un qualsivoglia disordine ma di una liberazione…a vantaggio, dicevo di una vertiginosa liberazione”.
E’ il nucleo irriducibile della nostra umanità che appare ancora più forte proprio nelle esistenze disperate che si incrociano e si intrecciano nel cinema Cielo, ed in tanti altri luoghi simili eppure diversi, un nucleo che ha il sapore della salvezza collettiva ed il fascino del riscatto individuale anche quando sembra impossibile.
Un nucleo che sopravvive sempre e che può prendere anche le forme simboliche del sacrificio supremo del Cristo che si erge sulle rovine della sua propria umanità, sulla morte, con l’immagine finale della drammaturgia che a mio avviso riporta alla mente, senza riproporne il grottesco pasoliniano, le scene de “La Ricotta”.
Una drammaturgia intrisa di angoscia e di dolore, così palpabile da essere quasi insopportabile, che tratteggia dunque una umanità mascherata, fatta di pupazzi e di travestimenti che non liberano ma rinchiudono sempre più nel profondo di noi stessi la salvezza possibile, ma insieme una drammaturgia che lancia segnali dall’inferno.
Una nuova grande prova questa di Manfredini e della sua compagnia. In scena con lui Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro che sotto la sua guida appaiono recitare sempre come fosse il loro ultimo spettacolo, inducendo negli spettatori la suggestione di un tempo ancora una volta irripetibile.
Vanno credo ancora una volta ringraziati i direttori artistici Renato Bandoli, Andrea Cerri e Michela Lucenti, insieme a tutto lo staff di Fuori Luogo, per aver riproposto una drammaturgia singolare, che gli spazi ridotti del Dialma Ruggero di La Spezia in un certo senso rafforzano ed esaltano nel rapporto diretto e ravvicinato con il pubblico accorso numerosissimo.
Il 12 e 13 gennaio per la Stagione di Fuori Luogo. Intensi gli applausi alla chiusura del sipario.