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Sono passati ormai una decina di anni da quando Marco Martinelli trapiantò la sua non scuola in un terreno che sembrava arido, ormai talmente indurito e secco da sembrare incapace di accogliere e sostenere le radici e i frutti di un suo possibile riscatto. Da quel primitivo innesto dal nome evocativo di Arrevuoto (a testa in giù ovvero facciamo la rivoluzione), è nato invece un frutto che solo lo sguardo affettuoso e profondo delle Albe poteva immaginare, questo frutto è la Compagnia “Punta Corsara” che si è aperta una via ormai consolidata nel panorama della nuova e più interessante drammaturgia italiana. Alimentati da un humus fecondo di aspettative, di sogni e di potenzialità che aspettavano solo di essere riconosciute, sono ormai quattro i lavori di questa compagnia dal nome impertinente che calcano i palcoscenici di tutta Italia, essendo riuscita la Compagnia a

liberarsi progressivamente anche di quei vincoli localistici, siano stati questi di natura sociologica o di malinteso legame con la pur grande ed indiscussa tradizione partenopea, per aprirsi a sguardi più essenziali e dunque più universali.
È quindi una storia ancora breve che si incista innanzitutto nel confronto con le maschere del teatro popolare napoletano, Pulcinella in primis, lanciati con coraggio, nell’eccellente “Petito Block”, al confronto con gli echi che la drammaturgia e l’arte europea d’avanguardia hanno saputo da esse cogliere e distillare.
Poi, con “Il Convegno” l’ineludibile confronto con sé stessi, o meglio con l’immagine che Istituzioni e sociologia volevano cogliere di essi quasi ad imbrigliarli fino ad imprigionarli nel luogo comune e nella consuetudine di una facile rappresentazione. Una ironicamente feroce ribellione che è stata quasi una liberazione.
Non è potuto mancare il confronto con i classici che innervano imprescindibili la storia del teatro e dunque di ogni teatro. Con “Hamlet travestie” la compagnia perfeziona una sua innata capacità di contaminare con gli elementi più profondi e interiorizzati della sua cultura, trasfigurata in una visione del mondo, le strutture drammaturgiche dei classici e attraverso questa contaminazione di saperne individuare ed enfatizzare le strutture cognitive, estetiche e comunicative.
Infine con “Io, mia moglie e il miracolo”, recentemente recensito dalla nostra Emanuela Ferrauto, l’approdo, forse, ad una più piena autonomia creativa, autonomia che è tale solo quando non prescinde dagli stimoli e dagli insegnamenti che costituiscono l’essenza di una drammaturgia. È questo un testo, molto ben scritto da un Gianni Vastarella alla sua prima prova come drammaturgo della Compagnia, che ricostruisce un interno familiare apparentemente ben localizzato ma che si apre ad una sorta di atemporalità e indifferenza geografica, perdendo ogni tentazione biografica.
Una storia semplice, dalla grammatica di fiaba e dalle sintassi surrealiste, che grazie a queste riesce a sprofondare nelle più recondite oscurità della famiglia stessa (la Famiglia con la effe maiuscola) rimanendone libera e per questo riuscendo ad essere ancor più ficcante e smascherante.
Così ne svela, con l’ironia grottesca dell’assurdo, le colpe ed i peccati ma soprattutto ne svela l’incapacità di riscattarsi anche quando gliene viene concessa l’occasione, qui dal misterioso guaritore. L’omeostasi di quella famiglia, cioè la pervicacia a mantenere i propri errori e le proprie mostruosità a dispetto di ogni evidenza perché solo così pensa di sopravvivere, diventa l’evidenza estetica e drammaturgica della contemporanea omeostasi sociale ed esistenziale che si nutre di apparenze per nascondere la propria verità.
Come in un vaso comunicante la famiglia, intesa come struttura sociale anche quando si riarticola nelle forme nuove della contemporaneità, diventa il luogo da cui si riversano nella Società, e in cui da quella si riverberano, gli schemi di un potere ottuso e anche cieco.
Sono numerosissime le suggestioni e numerosissimi gli stimoli che si intersecano in questa drammaturgia, da quelli psicologici a quelli esistenziali, ma tutti sono come riscattati nella ricerca di un disvelamento collettivo.
Da un tentativo audace sembra dunque essere nata una realtà che potrà percorrere le scene italiane ed europee ricevendo sempre maggiore attenzione, una realtà con due registi drammaturghi, Emanuele Valenti e Gianni Vastarella, importanti ma con grande spazio di ulteriore crescita, e con attori che sono riusciti ad organizzare professionalmente il loro spontaneo talento senza perderne un grammo.
Attorno a loro, i bravi Christiana Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Giuseppina Cervizzi, Morena Rastelli e gli altri che man mano si aggiungono, una struttura di tecnici di valore, il tutto organizzato dalla brava Marina Dammacco.