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Ci sono persone che percepiscono la propria vita come l’attesa di un Godot che sanno non arriverà mai. Ci sono persone che percepiscono di essere nate in un luogo e in un tempo in cui nulla di strepitoso né dirompente sta per accadere. E’ di loro che Alessandro Baricco narra in “Smith & Wesson”, all’Elfo Puccini di Milano (corso Buenos Aires, 33) fino al 5 febbraio. Gabriele Vacis, che tanto bene conosce la penna di Baricco e sa come portarla a teatro (“Novecento”), immagina una scenografia onirica, come sospesa in un non luogo che evoca la realtà, ossia le cascate del Niagara, mediante un soffuso sciabordio d’acque. Smith (Natalino Balasso) è un po’ inventore e un po’ metereologo, rileva il tempo

degli ultimi settantasette anni dai racconti della gente per annotarlo nel suo quadernetto; Wesson (Fausto Russo Alesi) è un pescatore figlio di pescatore annegato, che nel fiume pesca cadaveri. Tanti cadaveri, quante sono le anime disperate che ogni anno si gettano nel vuoto delle cascate del Niagara, sfondo universalmente sublime quanto doloroso dell’intera narrazione. I due amici col nome di una rivoltella (la celebre Smith&Wesson calibro 38 di tanta cinematografia a stelle e strisce) conducono una vita dalla quiete perenne, perturbata dall’arrivo di una giovane giornalista spiantata (Camilla Nigro) che cerca la sua occasione nella vita con lo scoop giornalistico che la renderà celebre. Lo scoop è lei stessa, che tenterà l’impresa di gettarsi nelle cascate all’interno di una botte che dovrebbe proteggerla e consacrarla alla fama.
Smith & Wesson, esperti di acque e della costruzione della botte, si appassionano alla causa, trovano in quella ragazza un monito a vivere per uno scopo, per quanto bislacco possa essere, fino a morirne. Succede l’irreparabile - e lo apprendiamo dall’ispiratissimo monologo finale della Signora Higgins (Mariella Fabbris), l’ospite della giovane giornalista – ma questa morte tutto è fuorché un sacrificio inutile. Sulle orme dell’invito a sognare, Smith & Wesson ne escono rigenerati, riprendono in mano le proprie vite e cominciano a viverle, seppur alla loro maniera (esilarante la conclusione messicana).
Notevolissima la resa scenica del messaggio, così contemporaneo eppur così antico. La ricerca di se stessi attraverso lo slancio sacrificale altrui è potente ed efficace proprio perché è l’inevitabile guizzo di una vita che rifiuta di essere vissuta languendo.
La scelta scenografica di rendere la medesima gabbia metallica ora un’abitazione (un po’ prigione) ora la botte in cui si compie l’impresa (un po’ tomba) è di grande effetto, mentre scrosciano sullo sfondo i turbini delle cascate più famose del mondo. Quel corpo giovane fluttua nel vuoto delle acque immaginarie, non c’è sconfitta, solo sublimazione in una notevole vetta di poesia visiva.
Grandioso Balasso, come al solito, ma il vero pregio di questa pièce è il connubio riuscito di attori diversi con un testo che calza loro a pennello.

Foto Serena Pea