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Si è chiusa la settimana delle memoria che, raccolta attorno all’immagine tragica di quel 27 gennaio del 1945 quando le truppe sovietiche liberarono Auschwitz, ci richiama al dovere di non dimenticare ciò che la caduta della mente e dello spirito umano può fare ed evocare. La Shoah, non solo ma anche tutti i genocidi “minori” solo per numero di vittime che accompagnarono la soluzione finale ebraica, da quello dei Sinti a quello dei malati e degli handicappati, fu un evento complesso che tocca ancora oggi tutti gli aspetti del vivere e del convivere umano. Non solo dunque quelli politici, sociali ovvero psicologici, ma anche e forse innanzitutto ciò che chiamiamo “cultura”, quell’insieme cioè di

raffigurazioni del sé che si formano nella continua interferenza con l’altro e che costituiscono il mondo che ci circonda e la sua immagine.
Vorrei dunque in queste pagine, che della drammaturgia fanno la loro ragion d’essere, brevemente parlare di ciò che quel genocidio programmato ha rappresentato per il teatro europeo e per uno dei suoi cuori pulsanti nei primi decenni del novecento, il teatro tedesco.
È quasi come se l’attacco preventivo a quel mondo così vivace e profondo da parte del nazismo al suo sorgere venisse a rappresentare la prima e necessaria battaglia per disgregare ogni possibile resistenza a ciò che si andava preparando. Bruciare libri o chiudere teatri poteva in effetti voler dire disarmare ogni eventuale resistenza.
Ne nacque una sorta di diaspora parallela che comincia in Germania per allargarsi all’Austria e poi a tutto il continente man mano conquistato dalle truppe naziste, e anche l’Italia quando da alleata divenne territorio di conquista, e fu una diaspora che man mano da politica si fece esplicitamente razziale, quasi che ebrei e oppositori culturali venissero a coincidere.
Se qualcuno riuscì fortunosamente a fuggire a fronte di una repressione che si faceva col tempo insostenibile, e ricordo solo e forse perché più vicini i genovesi Alessandro Fersen e Lele Luzzati che nell’esilio svizzero si conobbero e conobbero un altro grande teatrante genovese Aldo Trionfo mettendo proprio e non a caso lì le basi del proprio futuro artistico e filosofico, altri pagarono con la vita.
Per questo vorrei ricordare nell’occasione, un nome forse ancora troppo poco conosciuto in Italia, il nome di Jura Soyfer, giovane figlio di due culture apparentemente diverse, quella ebraica millenaria dell’Europa Orientale e quella vivace e modernissima della Vienna Mitteleuropea degli anni dopo la Grande Guerra.
Ebreo dunque e poi uomo di teatro legato ai fermenti della cultura teatrale più innovativa da Kraus a Brecht e Majakovskij, non fece in tempo a fuggire e fu preso subito dopo l’Anschluss e rinchiuso prima a Dachau e poi a Buchenvald dove morì di tifo nel febbraio 1939 (non era ancora iniziato il grande massacro che accompagnò la seconda guerra mondiale) a soli 26 anni.
Ha lasciato cinque sole commedie e frammenti di un romanzo mai concluso, opere che accompagnarono la sua irriducibile lotta per difendere le grandi conquiste culturali e sociali di quel tempo e per opporsi strenuamente al nazismo che avanzava con il suo carico di orrori.
La storia ci consegna una amara lezione che troppo spesso tendiamo a dimenticare.