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Forse, in questo nostro universo così confuso e contraddittorio, solo la brace di uno sguardo laico può illuminare ancora il mistero che la fede o meglio le fedi custodiscono e (loro malgrado?) irrigidite nelle loro certezze tramandano, il mistero cioè della divinità dell’uomo ovvero della umanità di Dio e ancor più il mistero di quell’energia metafisica, l’amore, che li attrae e li lega ma insieme appare trascenderli entrambi. Maryam, la nostra Maria nella locuzione araba, appare al centro di questo mistero, anch’essa forse suo malgrado, anzi ne è lo snodo essenziale incorporandone i poli nella sua saggezza ingenua e profondamente femminile, lo snodo che pone il mistero e lo preserva nella sua forza perché non lo risolve. Non a caso e forse proprio per questo Maria costituisce da sempre la figura su cui si interseca e si sovrappone la devozione femminile sia cristiana che

mussulmana, la figura dell’incontro la definiscono Marco ed Ermanna.
Il testo, complesso e, nella sua essenziale semplicità, ridondante come una eco interiore, si pone di fronte a questo mistero e lo fa articolando, paradosso solo apparente, le voci di tre donne mussulmane che, nella basilica della natività di Nazareth, rivolgono a Maryam più che una preghiera (tutto hanno perso a partire dai figli in un mondo in guerra perenne) una invettiva piena di amore traslato in rabbia inevitabile.
Ci domandiamo talvolta il perché non sia una voce o una penna di donna che si prende carico di quella pena così universalmente femminile, ma invece sia spesso un maschio che la rappresenta e la interroga quasi per avere un esito o un sollievo al dolore che lui stesso ha procurato.
La risposta forse sta nelle stesse parole che Maryam rivolge a quelle donne, una risposta di condivisione, la condivisione della pena e la condivisione del mistero di un amore pieno di lacrime e di dolore che nemmeno Dio sa riscattare. Gli uomini chiedono risposte e perdono ma le donne non hanno né l’uno né l’altro, solo appunto la condivisione che accomuna e dona la certezza del dubbio.
Dice infatti Maria alle donne “Io non ho mai perdonato Dio per aver fatto morire mio figlio. Anche se è risorto, anche se vive per sempre nella gloria, quella ferita rimane intatta ,… Questo Dio lo sa e non accampa pretese di perdono.” E ancora “Se avessi potuto compiere il prodigio di togliere mio figlio dalla croce, cosa sarei io per voi, oggi? Fortunata quella. Beata lei. Questo direste di me, senza amore. Invece voi mi amate e io vi amo. Di un amore sconosciuto ai macellai e ai becchini, ai sommi sacerdoti e ai procuratori generali.”
Fino al centro del mistero dunque, il mistero di un amore che non promette risposte ma solo la certezza di essere.
Attorno a quel testo in fondo tormentato Marco Martinelli ed Ermanna Montanari costruiscono lo spazio di un transito scenico straordinariamente empatico, il solo in grado di tollerare il dubbio e sopportare il mistero, uno spazio scenico in cui la luce ed il disegno vanno oltre il segno che la parola traccia sulla sabbia della vita, per trasmetterlo come una onda che prosegue dentro di noi e anche oltre di noi.
In scena, oltre il sottile velo del nostro pensiero razionale che, carico di domande e insanguinato dalle guerre, chiude il proscenio, Ermanna Montanari si fa carico di quella parola, talora aspra e rabbiosa talora melodiosa e dolcissima, e come la genetrix della nostra infanzia la rigenera quasi a farcene ancora una volta dono mentre è trasportata dalle intensità degli accordi, così esotici ma sempre così vicini al nostro “oscuro”, di Luigi Ceccarelli.
È una drammaturgia che paradossalmente induce al silenzio, quel silenzio particolare che, come scrissero la filosofa spagnola Maria Zambrano e prima di lei Ignazio di Loyola, ci conduce in quel luogo profondo, che la messa in scena magistralmente e misteriosamente riesce ad anticipare, in cui dentro di noi possiamo essere messi di fronte al “senza tempo”, qualunque sia il nome che ad esso vogliamo o riusciamo a dare.
Ritornano qui due amici storici delle Albe, Luca Doninelli di cui ricordiamo la “Mano de Profundis rock”, e Luigi Ceccarelli il musicista delle straordinarie sonorità di “Lus” e della stessa “Mano”, che lo sguardo drammaturgico di Marco e la sapienza femminile di Ermanna amalgamano con non ordinaria coerenza, nel filo di una riflessione che si dipana da tempo.
Una produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro insieme al Teatro degli Incamminati/Desidera, cui hanno partecipato Marco Olivieri per il suono, Francesco Catacchio per le luci,  e tre ex palotini: Luca Fagioli alla direzione tecnica e Roberto Magnani assistente spazio e costumi. Realizzazione video Alessandro Renda.
Il volto che, per buona parte del tempo, campeggia al centro della scena è quello dolente ma sempre fiero di Khadya Assoulaimani. Consulente e traduttore per l’arabo Tahar Lamri mentre la voce e le percussioni che accompagnano le trame sonore sono di Marzouk Mejri.
In prima nazionale all’Elfo Puccini di Milano dall’8 al 12 febbraio, dopo le anteprime di Napoli e Bari, proseguirà per Parma. Alla fine un silenzio carico di attesa ha preparato e anticipato i lunghi applausi e le ripetute chiamate in scena.