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Un bagno pubblico. Anzi, un cesso pubblico nel bel mezzo di Pechino, perché sia chiaro fin dal titolo che non siamo qui a fare poesia. Uno di quei luoghi frequentati dagli abitanti del quartiere durante il corso di tre decenni, dai Settanta fin quasi ai giorni nostri. Guo Shixing, noto autore cinese, è in scena al teatro Filodrammatici di Milano (via Filodrammatici 1) fino al 26 febbraio con la versione del sinologo Sergio Basso del suo “Cessi pubblici”.  Il bagno pubblico è una istituzione cittadina cinese negli anni in cui nessuno li aveva in casa. Niente separé, la gente si intrattiene prima e dopo per conversare, litigare e raccontare di sé. C’è l’entusiasmo della Rivoluzione, c’è il cambiamento rampante degli Ottanta,

c’è la trasformazione capitalistica dei Novanta. Il curatore del cesso ne fa una vocazione, il luogo gratuito per tutti, poco pulito ma molto frequentato. Il figlio lo rende un modo per far soldi in conflitto col padre e coi padri, quel conflitto insanabile della Cina odierna tra denaro e comunismo, violenza dittatoriale e passione politica. Infine un hotel extralusso pare mangiarselo e tutto diventa luccicante, pulito, ma molto irreale.
Una pièce molto interessante in sé, per questa capacità contrastiva di narrare epoche a confronto, ma curiosa anche per la scarsissima presenza di autori cinesi in Europa. Guo Shixing è una figura di rilievo nel suo paese ma  tutto sommato omogenea ai linguaggi teatrali occidentali, non fosse altro per la sua dichiarata passione per i nostri Molière, Shakespeare, Cechov, Fellini.
La sensazione persistente è di una rappresentazione né veramente critica né così propositiva, lontana da ogni teatro politico nel senso più Sessantottino del termine (leggi indignato). E questo non è certo un difetto. Pare piuttosto aperta a una narrazione di scoperta di un mondo talmente complesso da richiederne la comprensione solo tramite tre decenni a confronto. E’ come se il messaggio implicito sia che la grammatica dell’anima del popolo cinese sia così avvinghiata alle vicende socio-politiche, ai volontarismi pur appassionati, alla presa di coscienza della realtà più amara, che solo il teatro possa riuscire a narrarla in modo sintetico.
Il risultato è convincente, nonostante una regia sovraccarica di clownerie, teatro destrutturato, performance estrema, citazioni. Disorienta, lì per lì, ma poi si comprende come sia l’unica via per costruire anche nel linguaggio espressivo quella complessità universale di un popolo. Una chicca irripetibile.

Foto Manuela Pellegrini