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Uomini e donne che strisciano in mezzo a un campo con il mitra in pugno, trascorrono minuti interminabili, con la faccia nel fango oppure nascosti fra spighe di grano in attesa del nemico. Mirare puntare, fuoco... Niente paura è solo un gioco. Un mercato che non conosce crisi: i giochi di guerra. Non esistono cifre ufficiali, ma secondo alcuni dati circa mezzo milione gli italiani, almeno una volta nella vita vestono i panni di militari per provare le emozioni della guerra. Call of Duty - Fake Version (in scena al teatro Libero dal 13 al 19 marzo) riflette su queste nuove tendenze e racconta anche i conflitti attuali. L’autrice e regista dello spettacolo, Tatiana Olear e Manuel Renga, ci raccontano come nasce questo

progetto.

Tatiana Olear (Autrice, traduttrice, docente di regia e scrittura teatrale alla scuola Paolo Grassi di Milano; diplomata in pianoforte presso la Scuola Civica di Musica (Tomsk), laureata presso l’Accademia Teatrale di San Pietroburgo in Arte Drammatica)

1.Il testo è un viaggio in tempi e spazi diversi che porterà gli otto protagonisti ad immergersi in quella sensazione di pericolo perenne che caratterizza la nostra epoca, segnata da terrorismo e foreign fighters. Dalla Siria all’Ucraina, dall’Italia agli Stati Uniti, il pericolo è in agguato dietro alle nostre effimere sicurezze. Perché si combatte questa “maledetta guerra”?  Oggi che la guerra è sempre più vicina ai nostri schermi ma lontana geograficamente ci chiediamo come può un drammaturgo affrontare questi temi? Quali sono gli strumenti di cui deve dotarsi?

TO: Penso che dall'alba dell'umanità i motivi per cui si combatte rimangono sempre gli stessi: espansione degli interessi economici e la difesa del proprio territorio e della propria tribù. Le cose che cambiano sono le confezioni ideologiche nelle quali gli interessi economici vengono rivestiti e la nostra percezione: qual è il nostro territorio e qual è la tribù a cui apparteniamo. Nel mondo odierno globalizzato le distanze si stanno accorciando sempre di più. Forse noi non ce ne rendiamo ancora abbastanza conto, ma quel che succede in Ucraina (che è un paese europeo) e in Siria ci riguarda direttamente, basta pensare ai flussi migratori provocati dai conflitti. Per questo non credo che serva qualche strumento in particolare oltre alla volontà di cercare di capire che cosa ci sta succedendo intorno.

2. Un testo oggi più che mai attuale se pensiamo alle recenti politiche internazionali. Una drammaturgia polivocale fatta di lingue e dialetti diversi. Si mescolano e si confondono, frammenti di vita scorrono come i file di un computer e c’è qualcosa anche di intimo, quotidiano, come i discorsi fra madre e figlia. Come nasce l’idea di questo testo?

TO: L'idea nasce durante lo scoppio della guerra civile in Ucraina che per me è stata uno shock, in quanto non l'avrei mai ritenuta possibile. Ne parlavo con amici e conoscenti ucraini, russi, italiani, e anche provenienti dagli altri paesi, seguivo quello che stava succedendo in Ucraina su varie fonti d'informazione: Italiani, Russi, Ucraini, Inglesi. E le fonti raccontavano le versioni opposti degli stessi fatti. A volte anche i fatti cambiavano drasticamente. Chi mentiva? Chi diceva la verità? C'erano tanti filmati a comprovare le varie versioni, ma spesso e volentieri, si capiva che erano manipolati. Era impossibile sapere quale fosse la verità, senza esser stati presenti fisicamente sul campo. Mentre tutto questo stava succedendo mi tornavano in mente dei racconti e riflessioni dei conoscenti siriani che vivono in Italia a riguardo della guerra che c’è nel loro paese, nonché le storie delle persone reali che avevo conosciuto e che avevano fatto delle scelte per me impossibili da condividere, ma che immagino avrebbero dovuto dare una svolta alle loro vite. Così nacque l'esigenza di mettere a confronto diverse parti in causa, con annessi differenti punti di vista e la varietà di lingue di appartenenza e di adozione. In realtà il testo che ne è venuto fuori parla più che della guerra in sé, dei diversi modi di raccontarla e di raccontarsela. Da qua anche la riflessione di come noi adulti raccontiamo la guerra ai bambini e ai giovani, di come, volontariamente o no, li educhiamo alla violenza. Fisicamente ho cominciato a scrivere il testo nel 2015, poco dopo la battaglia per l'aeroporto di Donetsk, all'interno di un laboratorio di scrittura condotto da Mohammed Kacimi presso l'Accademia dei Filodrammatici. Il lavoro successivo è stato lungo, perché ho dovuto ricorrere anche a diverse consulenze, che riguardavano il contenuto e le lingue usate, che continuavano ad aumentare mentre si aggiungevano filoni narrativi e personaggi.

3.La tua formazione teatrale si sviluppa in luoghi diversi Russia Inghilterra Italia autrice in continuo movimento qual è la tua idea di drammaturgia contemporanea?

TO: Credo che la mia idea sia abbastanza ovvia: la drammaturgia contemporanea dovrebbe/potrebbe rispecchiare il mondo contemporaneo a secondo della visione dell'autore. La mia stessa visione, come hai giustamente notato, è quella di una persona che appartiene contemporaneamente a più realtà socio-culturali e quindi fa una grande fatica ad abbracciare un unico punto di vista sulle cose e sui fenomeni.

4. Call of Duty (conosciuta anche come CoD') è una popolare serie di videogiochi sulla guerra dalla prima guerra mondiale fino ad un’ipotetica guerra futura contro gli zombi La serie, a novembre 2014, ha incassato più di 10 miliardi di dollari. Come può oggi il teatro raccontare la guerra senza diventare un gioco a sua volta?

TO: Credo che quel che differenzia profondamente lo spettacolo dal gioco sia l'intenzione con la quale si cerca di affrontare il tema della guerra e della relativa "chiamata al dovere". Non è per divertimento, non è per la necessità di dare uno sfogo alla violenza repressa, ma per parlare delle persone, con le loro follie, leggerezze, fragilità, paure e dolori, ma soprattutto della loro umanità. Aggiungo anche qual è la differenza dell'approccio da quello dei mezzi d'informazione: non c'è l'intenzione di fare al pubblico un ennesimo lavaggio del cervello, ma quella di raccontarne il meccanismo.

Manuel Renga Attore e regista, studia con Fondazione Aida (VR), Scena Sintetica (BS) e si diploma al corso di regia della Scuola Paolo Grassi di Milano nel 2013. Con Corrado Accordino è Direttore artistico del teatro Libero di Milano dal 2016 e collabora alla direzione artistica di Isolacasateatro a Milano.

1. Quali difficoltà hai dovuto affrontare trattando un testo che racconta diversi scenari di guerra?

MR: La prima difficoltà è sicuramente legata al tema del realismo: come raccontare questi scenari di conflitto senza renderli finzione, senza togliere gravità, senza banalizzare neppure uno degli aspetti legati alla guerra. È difficile.
Il testo racconta in modo molto specifico alcune storie inserite in contesti bellici, racconta personaggi profondi con le loro piccole fragilità, i loro grandi desideri; mi sono concentrato su quelli e da lì sono partito per poi inserirli nei contesti sociali e politici di appartenenza. Guerra e devastazione passano attraverso gli occhi e i gesti dei personaggi.
Con gli attori ci siamo sentiti liberi di non rappresentare la guerra per evitare il pericolo di sovrapporre il teatro con i suoi linguaggi alla cronaca.

2. Nei tuoi ultimi spettacoli, complici forse i testi, presenti spesso una dimensione onirica: quale idea di teatro coltivi?
MR: Penso che il teatro non sia solo uno spaccato di realtà, non sia solo la rappresentazione delle dinamiche che già esistono nella realtà, ma che debba fare uno scarto, un salto, debba in qualche modo elevarsi rispetto alla realtà che viviamo quotidianamente.
I testi che scelgo raccontano mondi che si inseriscono fra le maglie della realtà, allargandole, aprendo strade e porte al pensiero affinché chi osserva, chi ascolta, possa perdersi e distaccarsi dalla cruda realtà.
Per questo la dimensione onirica ha sempre molto spazio nei miei lavori. In Call of Duty - Fake Version, il testo presenta una struttura precisa che avvicina alcuni momenti di naturalismo ad altri più astratti. Il cortocircuito fra dimensione reale e virtuale, fra storia e finzione è ciò che mi interessa usare come chiave per la messa in scena.

3. Come ti poni nei confronti degli gli attori e della loro autonomia?

MR: Mi piace lavorare con attori creativi, propositivi e negli ultimi anni stato davvero fortunato perché i cast dei miei lavori sono sempre stati formati da bravissimi professionisti. Penso a “Testastorta”, “Portami in un posto carino”, “ Assassine”, “Ay Carmela!”.
Credo molto nella professionalità degli attori e nella loro autonomia di lavoro.
Dopo una prima fase di studio e approfondimento del testo dedico sempre gran parte delle prove all’improvvisazione, chiedo agli attori di creare, di raccontare di allontanarsi anche dal testo per far emergere stratificazioni, link non razionali o immediati, per poi raccogliere e con loro distillare quello che diventerà lo spettacolo.
Call of Duty - Fake Version, ha seguito un lungo percorso, anche per via della complessità del materiale drammaturgico: siamo partiti da un primo studio giunto in finale al Premio Petroni 2016 a Brescia, che poi è stato completamente modificato per una seconda fase di studio presentata al Teatro Menotti, nella rassegna Innesti dell’Outis nel giugno 2016. Nemmeno quella era la forma compiuta, per cui con una terza sessione di prove e di lavoro sul testo siamo giunti alla versione che presenteremo al Libero dal 13 al 19 marzo. Chissà se sarà quella finale!

4. Si parla sempre più del declino del teatro di regia qual è il tuo parere in merito?

MR: Sì, sento spesso questo pensiero, è stato anche l’argomento più importante del Festival della Regia organizzato un paio di anni fa a Milano, in cui critici e artisti erano piuttosto d’accordo.
Se per teatro di regia si intende il teatro di Strehler e Ronconi, be’ sì, credo, sia in declino, ci sono ancora pochi registi (come Antonio Latella, Andrea de Rosa) che lavorano in questo modo e che producono spettacoli meravigliosi, macchine teatrali perfette.
Tuttavia credo molto, per mia indole, nella trasformazione. Non penso che il declino di un modo di fare teatro sia pericoloso, credo sia solo frutto del cambiamento dei tempi, del resto il teatro è l’arte che meglio rappresenta il contemporaneo, che meglio parla del proprio tempo.
Probabilmente altre forme teatrali sono più adatte a raccontare la nostra realtà. Probabilmente il modo di far regia si sta trasformando.
Io sono un regista e la parte più interessante del mio lavoro trovo sia l’incontro con gli attori, con scenografi, musicisti, light designer, il momento in cui l’idea che ho avuto prende forma grazie alla professionalità di ognuno: credo che l’incontro sia il mattone fondamentale della creazione teatrale. Non ho mai costruito tracciati, o diretto gli attori indicando dove andare come dire una battuta, ma non perché questo non sia possibile, quanto perché non appartiene alla mia idea di regia.
Idea che si trasformerà con l’esperienza e con il lavoro.
Mi piace paragonare l’arte alle città: adoro guardare la città che cambia, vedere le vecchie e meravigliose case di Milano affiancarsi a grattacieli di ultima generazione, sentirmi in un contesto fertile e in trasformazione; l’arte in generale e il teatro in particolare devono seguire queste trasformazioni sociali, politiche ed umane e trarne ispirazione e forza.