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È la terza tappa del percorso artistico di Marta Cuscunà all’inseguimento di quel filo rosso e sottile che accompagna da sempre il rapporto di genere, quello tra maschio e femmina, tra uomo e donna, il filo di una resistenza femminile allo squilibrio patriarcale che si dipana negli anni e nei secoli con una fantasia, una intelligenza ed una ricchezza, talora sbeffeggiante, che è stata in grado sovente di mettere in imbarazzo, se non in scacco, quello stesso potere maschile che, tra l’altro, più che gli interessi del maschio sembra soprattutto attento agli interessi del “potere” stesso. In effetti, per restare a tempi a noi più vicini e comunque al teatro, se nel primo novecento questa resistenza si articolava nella contrapposizione al maschio da cui emergevano figure forti e complesse, dalla Lulù di Wedekind alla ibseniana Rebecca West, dalla Signorina Jiulie di Strindberg alle donne “di carne” accigliate di un Rosso di San Secondo, che si mescolavano in una lotta in cui l’uno non poteva prescindere dall’altra, ora la narrazione si fa più contraddittoria e fin quasi

paradossale. Nel 2008 in una scuola superiore americana 18 adolescenti, appartenenti a diversi ceti sociali, brave nell’apprendimento, rimangono contemporaneamente incinte. Alla curiosità iniziale fa posto lo stupore di scoprire, tra le maglie di una comunità divenuta afona, che quelle giovani donne hanno deciso di scegliere la vita mettendo al mondo le loro creature e allevandole sole e separate, all’insaputa dei giovani padri e della stessa comunità in cui sono nate, segnata questa in sottofondo da una forte violenza domestica maschile.
Lottare “contro” il maschio diventa dunque lottare “senza” il maschio ma mantenendo quella forza di contrapposizione, intima al femminile, che smaschera e insieme libera indifferentemente maschi e femmine dalle loro oppressioni e dalle loro ipocrisie.
Da questa narrazione nasce e attorno a questa narrazione quasi si aggroviglia la drammaturgia della Cuscunà che, come nella sua cifra estetica, usa le maschere per prescindere dal corpo recitante, le usa cioè nella loro intrinseca forza metaforica e simbolica quasi a brechtianamente mostrare a ciascuno di noi, messo al muro e lì lasciato appeso da un potere che non si mostra e che in fondo non è né maschio né femmina, il volto sconosciuto che, come si dice, portiamo in società.
Il grottesco che è sintassi della messa in scena accentua così l’effetto smascherante di un testo giocato ed in scena dispiegato sulle antitesi ripetute, uomo-donna, giovani-vecchi, cittadini-istituzioni, e sulle contraddizioni di classe e razza che attraversano le nostra comunità ormai destrutturate.
Un bel testo, a mio avviso, che recupera e sottolinea, proprio nella sua complessa significatività, la povertà di una cultura fatta di stereotipi e luoghi comuni formativi e violenza, di cui i giovani adolescenti sono lo specchio più immediato, e che la voglia di vita di queste giovani madri destabilizza e scompone.
Senza riandare ad antichi miti, residui di società forse matriarcali, basterà al riguardo ricordare Bakunin e la sua genitorialità femminile condivisa, per riconoscere l’anarchica incompatibilità tra tale desiderio ed una società capitalista che dal patriarcato ha colto e coglie tuttora la giustificazione della sua tirannia.
Un lavoro complesso, dunque, quello che si dipana in palcoscenico nel sovrapporsi del teatro civile di narrazione con il teatro di figura, della cura della parola con l’abilità quasi circense di una Marta Cuscunà sola a fronteggiare 12 maschere (gli adolescenti padri, i genitori, il preside) appese ad un muro virtuale mentre un telefonino costituisce l’unico punto di contatto con le madri impegnate a generare e per questo significativamente assenti dalla scena.
Hanno collaborato alla messa in scena Paola Villani con la progettazione e realizzazione delle dodici teste mozze e l’assistente alla regia Marco Rogante. Alla sala Campana del teatro della Tosse il 10 e 11 marzo. Uno spettacolo che ha meritato i molti applausi della sala e ha lasciato molte riflessioni e interrogativi.

Foto Daniele Borghello