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Gli studi sull’emigrazione degli Italiani in America caratterizzano un proficuo ambito di ricerca in cui confluiscono, soprattutto negli ultimi anni, anche gli approfondimenti che riguardano il centenario della Grande Guerra. Gli osservatori, gli studiosi ed i critici che operano nel mondo teatrale hanno, dunque, tenuto conto della produzione di quegli spettacoli che, durante il triennio 2015-2018, hanno calcato o calcheranno i palcoscenici in Italia e all’Estero, portando in scena non solo le storie legate alla Prima Guerra Mondiale, ma anche quelle descritte attraverso l’emigrazione italiana in America, durante la prima metà del Novecento. L’analisi delle condizioni degli Italiani in America ha sempre rivelato il difficile rapporto tra i nostri connazionali e la presunta terra del lavoro e della prosperità, situazione che è ben evidente anche all’interno dello spettacolo

presentato da Peppino Mazzotta, nel ruolo di autore, regista e protagonista: GIUSEPPE Z. è il titolo eponimo del lavoro in scena presso il Ridotto del Teatro Mercadante di Napoli, dal 14 al 19 marzo.
La storia di un uomo che ha un nome comune ed un cognome sconosciuto, che parte da un paesino della Calabria e che scopre il nuovo mondo: tutto questo è contenuto nell’ottima interpretazione di Mazzotta. L’America accoglie con lavoro, denaro e attività frenetica, ma contamina gli Italiani e li indurisce, li ferisce in quell’animo reso doloroso dalla lontananza. Le ambientazioni, collocate tra gli anni ’20 e ’30, sono caratterizzate dal chiaroscuro fumoso degli interni di una prigione e dalle sonorità jazz, riprodotte in scena dal trombettista Ciro Riccardi che esegue dal vivo le musiche, scritte appositamente per lo spettacolo. I cambi di scena e quelli temporali, così come le ”cuciture” drammaturgiche, sono dunque caratterizzati dalle note dolorose di questo strumento musicale. L’America è descritta come il Paese che sfrutta gli immigrati, che punisce i crimini attraverso la pena di morte e la sedia elettrica, che potrebbe rimandare a casa un uomo con il marchio da delinquente, scelta quest’ultima temuta ancor di più dai nostri connazionali.
Giuseppe spara cinque colpi durante una manifestazione pubblica, ferendo cinque persone: il suo intento è quello di distruggere un fantomatico Presidente. Durante l’interrogatorio, il commissario americano si ostina a chiamarlo John, provocando una reazione furiosa nel protagonista.
La perduta identità appare come il filo conduttore di questa storia che, in verità, non sembra raccontarci nulla di nuovo e che utilizza le ambientazioni retrò per porre il protagonista all’interno di un preciso momento storico, piuttosto vicino alla nostra epoca, scelta che conduce, poi, all’affermazione di un tema universale, ossia quello dell’uomo che è costretto ad indossare una nuova identità, ad adottare una nuova lingua, ad accettare una nuova cultura pur di sopravvivere. Giuseppe, il calabrese, non ci sta. L’imposizione di un potere conduce il protagonista a non accettare nessun orientamento politico, rifiutando le nette distinzioni che in Italia, invece, cominciano a farsi luce attraverso il Fascismo e che, nel resto del mondo, si identificano nella dualità comunismo-capitalismo, riproducendo scenicamente, quindi, un arco temporale ben più vasto di ciò che sembra descriverci storicamente la scenografica, ricordando anche i campi di concentramento tedeschi attraverso le divise indossate dai due carcerati. Il compagno di cella, interpretato da Marco Di Prima, giovane attore siciliano che diventa calabrese per la scena (ad un attento ascolto emerge, infatti, l’accento siciliano), reduce dalla guerra in trincea e zoppo, si offre di scrivere in inglese il diario dell’esperienza americana di Giuseppe, il quale sa e vuole esprimersi solo in dialetto calabrese: il protagonista accetta solo davanti alla possibilità di ampliare il suo uditorio, di farsi comprendere dal potere che opprime. La lingua appare, dunque, l’elemento che caratterizza l’identità e Giuseppe combatte affinché anche questa non scompaia dalla sua mente, affinché il suo nome non si trasformi in John.  Il compagno di cella comincia a pronunciare il verbo “spiccare in lingua paesana”, adattando il termine inglese “speak”, tradisce quindi le sue origini, tradisce il valore del mutilato di guerra, tradisce la Patria, anche e soprattutto attraverso la lingua, che è espressione massima della nostra origine e ne è segno immediato.  Numerosi studi hanno evidenziato la commistione e sovrapposizione tra la lingua degli emigrati italiani in America e le espressioni anglofone, ma la ricerca linguistica di questo spettacolo si muove anche verso un altro percorso, inevitabilmente legato alla scena: Mazzotta, infatti, trasforma costantemente la lingua del suo personaggio, abituando pian piano il pubblico al dialetto. Se all’inizio del racconto Giuseppe utilizza un italiano regionale, nel corso dello spettacolo parlerà apertamente in calabrese, per poi concludere in italiano standard, nel momento in cui pronuncerà il monito finale, quasi un apocalittico avvertimento rivolto all’umanità futura.
La dualità tra coraggio e codardia, tra rivoluzione ed oppressione, tra accettazione e rifiuto, tra opportunismo ed onestà, si sovrappone al binomio Italia-America e all’evoluzione storica che ne deriva. All’interno di questo racconto non convince, però, la giovane Giulia Pica che, accanto a due colossi come Peppino Mazzotta e Salvatore D’Onofrio, appare eccessivamente rigida e poco espressiva, unico personaggio femminile, immagine della neutralità e della sottomissione alla nuova patria.
Il pubblico apprezza l’emozionante interpretazione di Mazzotta, il connubio con il giovane Di Prima, lo scontro verbale con D’Onofrio ed esplode, infine, in prolungati applausi.

Foto di Marco Ghidelli

GIUSEPPE Z.
Ridotto del Teatro Mercadante Napoli
14-19 marzo 2017
GIUSEPPE Z.
testo e regia Peppino Mazzotta
con Marco Di Prima, Salvatore D’Onofrio, Peppino Mazzotta, Giulia Pica
scene Grazia Iannino
disegno luci Cesare Accetta
costumi Marianna Carbone
musiche eseguite dal vivo da Ciro Riccardi
aiuto regia Angela Carrano
direttore di scena e macchinista Nicola Grimaudo
elettricista Carmine Pierri
sarta Annalisa Riviercio
foto di scena Marco Ghidelli
scene a cura della Cattedra di Scenografia – prof. Luigi Ferrigno dell’Accademia di Belle Arti Napoli
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale