‘Ugly Lies the Bone’. Il titolo si rifà ad una vecchia cantilena di un autore sconosciuto che ricorda quanto effimera sia la bellezza e che i conti si fanno con ‘la bruttezza dell’osso’. L’autrice americana Lindsay Ferrentino affronta il tema dell’ardua ricostruzione di sé, degli affetti e della propria realtà quando si è tormentati da ferite fisiche e psicologiche.
Dopo l’ultima missione in Afghanistan, Jess (Kate Fleetwood) vittima di un’esplosione che le ha provocato serie ustioni, dolore cronico e diverse riscostruzioni facciali, ritorna nella sua anonima cittadina della costa orientale della Florida di Cape Canaveral. Una terapia sperimentale le permette di costruire una realtà virtuale per combattere la sindrome da stress post traumatico e fare esercizio dimenticandosi del dolore. Tra una sessione e l’altra, Jess è accolta a casa da sua sorella Kacey (Olivia Darnely), frivola e protettiva, che tenta in ogni modo di garantirle un’esistenza ‘normale’ persino cercando col suo ragazzo Kelvin (un esilarante Kris Marshall) un lavoro adeguato alle condizioni di Jess. Ma la prova piú impegnativa per la protagonista è affrontare il suo ex Stevie (Ralf Little) che, dopo l’ultimo arruolamento di Jess, ha deciso di voltare pagina e sposarsi inseguendo il suo ideale di vita normale e felice. I due si incontrano in diverse occasioni riscoprendo, tra silenzi e imbarazzo, sentimenti reciproci tristemente irrealizzabili.
Il contesto della storia è il lancio dell’ultimo shuttle Atlantis da Cape Canaveral che chiudeva nel 2011 la storia trentennale del programma Space Shuttle della NASA e, nel dramma di Ferrentino, rivela una città con sempre meno lavoro, turismo e prospettive future. Una città simbolo della vanità delle speranze della stessa Jess che si fa forza ripetendosi che tutto quello che ha passato non può essere stato per nulla, ma si accorge che anche il gioco virtuale è un semplice palliativo, seppur paradisiaco, che non potrà sostituire l’aridità delle circostanze reali. L’unico barlume di umanità arriva alla fine, quando Jess si appresta al tanto temuto incontro con la madre (Buffy Davis) affetta da demenza senile, che non solo riconosce Jess immediatamente ma non è affatto turbata dal suo aspetto.
Gli attori offrono interpretazioni estremamente convincenti e l’attrice protagonista, in scena per l’intera durata dello spettacolo, dà una prova di recitazione notevole e a tratti commovente, creando un personaggio dalle espressioni sardoniche che resiste all’arrendersi alle circostanze con tutta se stessa e si tormenta per trovare il modo meno doloroso di continuare a vivere.  
La drammaturgia è sapiente e i dialoghi incalzanti non mancano di comicità, bilanciando i temi difficili della storia e rendendo lo spettacolo digeribile. Le proiezioni e la scenografia sono alla stregua degli effetti cinematografici. Il palco del Lyttelton si sviluppa in altezza formando una mezza sfera su cui vengono proiettate immagini stile google earth durante le scene reali e immagini dinamiche di foreste, montagne innevate e tempeste di neve durante i momenti della terapia gioco-virtuale. Dal punto di vista strettamente drammatico, tuttavia, la presenza della realtà virtuale (non solo dal punto di vista tecnico ma precisamente il suo esistere in questa storia) è del tutto fuorviante, diventando una distrazione, per quanto spettacolare, dall’azione drammatica. La vera bellezza di questo testo risiede nella tragicità del vivere con se stessi dopo un evento traumatico, nella complessa operazione di recupero e nella difficoltà di ricostruirsi una vita normale. Dunque la scelta di dare cosí tanto spazio alla terapia virtuale indubbia rilevanza medica sperimentata in America, penalizza decisamente il valore drammaturgico di questa storia.

‘Ugly Lies the Bone’ di Lindsey Ferrentino, diretto da Indhu Rubasingham (visto mercoledí 29 marzo)
al Lyttelton (all’interno del National Theatre) fino al 6 giugno https://www.nationaltheatre.org.uk/shows/ugly-lies-the-bon