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Che cosa grande è il teatro quando, nella semplicità del gesto scenico, riesce a condensare e riprodurre il senso di un intero momento storico, riesce a leggerlo in profondità quel momento, a restituirlo nella sua dinamica più profonda e autentica, lacerante e tragica. Raccontiamo questa volta di “Come un granello di sabbia”, lo spettacolo di Massimo Barilla (testo e regia), Salvatore Arena (drammaturgia e interpretazione) e poi di Aldo Zucco (scenografia), di Luigi Polimeni (musiche originali), di Stefano Barbagallo (disegno Luci), che si è visto sulla scena del bellissimo Teatro Cilea di Reggio Calabria il 23 aprile scorso. Citiamo quasi tutti gli artisti che hanno lavorato alla realizzazione di questo spettacolo perché, davvero, appare evidente che si tratta di uno spettacolo pensato e amato da un intero collettivo di artisti: pensato insieme, voluto, impastato di ricerca e riflessione corali. Non è

superfluo, per altro, ricordare anche l’apporto scientifico del libro “alkamar-la mia vita in carcere da innocente” (ed. Chiarelettere), scritto dallo stesso protagonista della storia, Giuseppe Gulotta, in collaborazione con Nicola Biondo. Il 27 gennaio dl 1976, in Sicilia, in provincia di Trapani, ad Alcamo Marino vengono assassinati due giovani carabinieri, misteriosamente, mentre dormivano in caserma, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Le indagini portano all’arresto quasi immediato di alcuni giovani del luogo Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli,  Giuseppe Gulotta: è un’azione violenta, dettata dalla fretta di chiudere un caso evidentemente increscioso (i due militari si trovavano a dormire in caserma) e, più probabilmente, dalla volontà politica (una volontà politica occulta, inconfessabile, colpevole) di nascondere e coprire le vere responsabilità avvolgendole in una densa coltre di menzogne dentro la quale saranno schiacciate le vite di persone innocenti individuate come capri espiatori. Tra queste la vita semplice, piena di aspettative e di desideri, del muratore appena diciottenne Giuseppe Gulotta che, arrestato quasi immediatamente dopo quell’ omicidio, viene costretto (con le buone e soprattutto con le cattive) a confessare quel reato mai compiuto. Ne scaturiranno ventidue – dicasi ventidue – anni di carcere e complessivamente 36 anni di incubo giudiziario (fino alla revisione finale con l’ultimo processo celebrato a Reggio in cui è stata decretata la completa estraneità ai fatti sua e degli altri tre accusati e morti prima di vedersi del tutto scagionati). Si staglia in scena insomma – e davvero Salvatore Arena è capace di ogni significazione - non solo una dolorosissima vicenda personale e di mala-giustizia, ma soprattutto uno spaccato di che cosa è stato davvero il cuore del nostro paese nei decenni scorsi: un cuore avvelenato da una politica vigliacca, dalla mafia, dai servizi deviati, da consorterie fasciste di vario genere e spietate oltre ogni immaginazione nella conservazione del loro potere. Si tratta di uno spettacolo intenso, rigoroso nel suo disegno e vissuto, recitato, agito - segmento dopo segmento - non solo con la certezza “politica” di fare un servizio concreto alla costruzione di una seria coscienza libera e democratica nel nostro paese (una coscienza che ha il diritto di domandare e di ottenere risposte), ma anche con la giusta consapevolezza che l’unica onestà che il teatro può garantire è la verità (la verità ambita, desiderata, cercata responsabilmente) e la qualità artistica di ciò che accade in scena: così al personaggio di Gulotta sono assegnate verità e respiro, gambe e lacrime, faccia e paura e smarrimento. Lo smarrimento kafkiano (molto contemporaneo e misteriosamente metaforico) di un granello di sabbia dentro un ingranaggio troppo più grande di lui per essere compreso. Verità storica, senso politico e qualità della messinscena, tre ingredienti in perfetto equilibrio che rendono importante questo spettacolo che diversamente, e facilmente, avrebbe potuto perdere di senso e di profondità.