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Ci sono spettacoli che meritano di ripercorrerne la gestazione. Te lo chiedono con la stessa naturalezza con cui tu, spettatore, ti domandi come accade che un'attrice possa maturare la scelta di dare vita a un guerriero. E per di più un'attrice esile, diafana, eterea come Viola Graziosi. Ma in realtà non è stata una scelta. E' accaduto per caso, anzi no, per necessità. Non lo sapevo mentre assistevo a questa Aiace di Ghiannis Ritsos due anni fa, per la stagione del Fontanone. Pensavo a una provocazione, alla volontà di proporre un'operazione nuova, sull'onda di certa ricerca che a qualunque costo deve stupire. Poco più tardi seppi invece che dovevano essere in due e che la figura di Aiace sarebbe stata di Graziano Piazza (allora impegnato in altro allestimento), e Viola sarebbe stata Tecmessa, la consorte di Aiace, che anche Ritsos gli pone vicino. Tutto normale dunque, nessuna

impennata, nessuna pensata, nessun artificio gratuito. Semplicemente il desiderio di non mandare a monte un progetto che entrambi avevano in serbo da tempo.
“Fallo tu”, dice Graziano a Viola riservandosi l'onere della regia e lei si trova con un testimone in mano e una data già fissata per il debutto. Si va in scena di lì a poco.
E' importante ricordare come sono andate le cose soprattutto ora, a distanza di due anni, dopo che lo spettacolo si è non solo consolidato ma evoluto e modificato. Modificato come la materia prima, quando è ancora abbozzata, che trova la sua forma attraverso il lavoro. Ecco, il lavoro. In questa operazione che ad un primo momento mi aveva lasciato perplessa, mi ha commosso innanzitutto il lavoro.
Il lavoro capillare sulle parole, sulla voce, sui gesti, l'energia convogliata e il rispetto per il poeta che non viene stravolto, usato e abusato, ma reso con delicatezza e partecipazione, dimostrando un sodalizio di coppia e una simbiosi che ha fatto il miracolo.
E ha fuso la leggerezza e la misura con la forza bruta e la hybris cieca di un guerriero ferito.
E' un archetipo di guerriero, Aiace, ferito nell'onore e ancor più in quel sentimento 'borghese' che è l'orgoglio. Colui che ha desiderato le armi di Achille e non è stato accontentato e allora si vendica.
La sua vicenda la conosciamo dalla tragedia di Sofocle, conosciamo la sua furia e la sua vergogna, la sua fragilità di soldato e di eroe che si è trovato a scontare lo scherno di Atena senza reggere all'agnizione. Lo abbiamo saputo sbranare una mandria di buoi scambiati per i compagni, abbiamo solidarizzato con lui, lo abbiamo compatito. E abbiamo anche sperato che Tecmessa, la consorte, riuscisse davvero a impedirgli il suicidio. Che l'amore valesse per lui di più dell'onore e fosse più forte della vergogna. Lo abbiamo sperato un po' meno mito e un più uomo, desiderandolo vivo. E se il prezzo era la morte poco ci importava la sua gloria imperitura.
Questo per dire che ci sono figure che più di altre si offrono alla compromissione emotiva, all'identificazione mediata da tratti umanissimi che ci riguardano e chiedono solidarietà, compassione, pietas per l'uomo e le umane disgrazie.
Il poeta greco Ghiannis Ritsos nella sua rilettura moderna del mito classico ci restituisce figure vive, di carne, che soffrono e si struggono con noi e come noi, e Aiace ci parla da eroe sconfitto, da non combattente, da arreso, stanco, tradito, forse anche malato, da colui che ha ceduto le armi perché quelle che più desiderava sono andate ad un altro. La sua vividezza arriva mediata, quasi un ricordo che a tratti diventa presente, e la sfida non è solo portare il suo peso, ma portare il peso della sua rinuncia, che è ancora più grave.
All'attrice il difficile compito di farlo rivivere, di caricarsi addosso questo peso di assenza, che nell'evocazione diventa incombente.
Ora Aiace che si agita e urla, i gesti violenti e reiterati, ora Tecmessa, ora ancora Aiace nelle sue emozioni riposte, la fragilità che non si nasconde, il pianto, la sua piccolezza uguale alla nostra, di fronte “all'infinito mondo che si desta” e che la sorprende in posizione quasi fetale, su una sedia, che è anche l'unico elemento di arredo di tutta la scena.
C'era adagiata la vecchia divisa macchiata di sangue prima che l'eroe/eroina vestita di bianco, ieratica e lieve, guadagnasse la posizione attraverso una scala, dietro di noi: lenta ma inesorabile, come lenta e inesorabile è l'interrogazione che i tre -poeta regista e attrice- rivolgono all'animo umano, perso e ritrovato nelle sue pieghe infinite, in fondo al pozzo dove c'è sempre “una donna annegata che non vuole morire”.
Ed è lei che parla al guerriero, dal fondo del pozzo, e lo consola. “I Greci un giorno si ricorderanno di me – dice Ritsos-Aiace – e sennò non importa: a me basta quel che ho trovato nel perdere ogni cosa”.
Le parole di Ritsos, nella bella traduzione di Nicola Crocetti, sono quotidiane e insieme poetiche, capaci di animare le piccole cose senz'anima chiamandole 'mansuete', di soffermarsi un po' di più su una stella più 'furba' di altre, o sulla luna che ha “calcinato la strada”, oppure di dare forma al silenzio quando “si incurva come una campana di vetro”.
Arrivano nitide e forti, soppesate, digerite, distillate con cura e precisione. Ed è la cura, dinuovo, che conquista fino alla fine, la complicità che si tocca con mano, la regia dedicata e l'interpretazione accogliente, sintonizzata su corde chiaramente condivise, dentro una partitura in cui la voce si accorda con suoni e rumori, il ronzio di una mosca, il trotto dei cavalli, lo scroscio dell'acqua.
Un pezzo di gran bel teatro, onesto, che merita di essere visto e che ci auguriamo diventi per Viola una pietra miliare del suo repertorio, da tirare fuori ogni tanto, perché cresca e si evolva con lei.

AIACE
di Ghianni Ritsos
con Viola Graziosi
Regia Graziano Piazza