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A “Primavera dei teatri” 2017 Saverio La Ruina ha portato la sua ultima creazione, “Masculu e fimmina” (il 2 giugno, nella Sala Consiliare), uno spettacolo importante che ha iniziato il suo percorso già nel 2016. Cosa si può dire criticamente di questo spettacolo di più e/o di diverso di quanto su di esso ha già scritto la più avvertita critica nazionale? Profondità di lettura della realtà, consapevolezza culturale, intelligenza scenica e di scrittura, potenza linguistica, ritmo ipnotico, coraggio civile: tutte caratteristiche di questo spettacolo e tutte qualità riconosciute che connotano il linguaggio e l’intera produzione di questo artista. Eppure, rispetto ai lavori precedenti, in questo spettacolo un elemento sembra stagliarsi con più complessità e problematicità: l’intersecarsi politico tra la dimensione della provincia/periferia e quella della città, del sud e del nord Italia, dell’antico che

persiste e del moderno che continua ad affermarsi inesorabilmente, mentre magari il pensiero è già molto oltre e si fa largo nella dimensione del post-moderno. La storia che si dispiega in scena è una biografia ed è molto semplice: un uomo, superati i cinquanta anni, si reca in pieno inverno a visitare la tomba della madre. Una lapide semplicissima, una foto della defunta, un cimitero che garantisce l’intimità di un dialogo sommesso eppure desiderato, la neve che copre e attutisce tutto, una pezzuola per pulire quella foto. E poi ecco la confessione, ecco il monologo, affettuoso, pacato (lo definisce La Ruina, e forse sarebbe più giusto definirlo pacificato) che un figlio rivolge alla madre che non c’è più (una madre coi capelli grigi con le sfumature azzurre e un po’ grassa «perché se una mamma non è grassa che mamma è?»). Un monologo che ben presto si modula nel respiro di un dialogo, perché, seppur morta, egli della madre può sentire con esattezza le risposte, i sorrisi, i silenzi eloquenti, i rimproveri, le ansie, il coraggio. Racconta, quell’uomo, il percorso di acquisizione della consapevolezza del suo essere omosessuale: dai primi confusi turbamenti infantili e primo-adolescenziali, alla durezza dello scoprirsi frocio, finocchio, masculu e fimmina, ricchiuni, gay e via sfottendo in un piccolo paese della provincia calabrese, dalla scoperta dell’amore, nelle varie forme e intensità in cui questo sentimento divampa e si manifesta, fino alla necessità di chiamare (e di sentir chiamare) la realtà del suo essere con l’unica espressione che può rispecchiarla esattamente, che la definisce con semplice serietà e con “virile” nettezza, ovvero “un uomo a cui piacciono gli uomini”. Un uomo del sud, uno a cui piacciono gli uomini”, un uomo che a Roma (che è nord e centro rispetto alla Calabria) ha conosciuto l’impegno politico (a sinistra, certo, con la protesta degli anni settanta e la ribellione degli eskimo) e poi a Riccione, dove faceva il cameriere e barista e dove ha incontrato il suo grande amore e la devastazione della perdita e del lutto. Tutto lineare, autentico, lacerante come lo sradicamento culturale e come la percezione grandezza della propria dignità calpestata. Quell’uomo, che è tornato per sempre a vivere e a invecchiare nel suo paese, pretende solo rispetto, nulla d’altro, nulla più. Ora, al di là della forma di questo spettacolo che, come si è detto prima, è tutta interna al dispiegarsi coerente della realtà espressiva di questo artista, la domanda che ci si deve porre e alla quale è doveroso provare (almeno provare) a rispondere riguarda la sua necessità estetica (e quindi anche politica): cosa ci dice di davvero autentico e necessario? Ci dice soltanto che è giusto, necessario e ormai urgente che gli omosessuali siano completamente rispettati nella nostra società? No, non soltanto. Ci dice piuttosto che antico e moderno non solo continuano a convivere nel nostro paese, nei paesi del sud e nei loro abitanti, ma agiscono insieme, s’intersecano, si mescolano, collidono nei corpi e nelle anime delle persone, si ostacolano e si sorreggono, si modificano reciprocamente, insieme provocano effetti politici. E però, forse, la questione è persino più complessa e profonda di così, il fronte è più ampio e il rispetto nei confronti degli omosessuali è qualcosa che non è limitato ai diritti ma ad un più vasto e profondo concetto di giustizia: nel momento in cui la sinistra “culturale” ha in qualche modo scelto d’essere borghese e libertaria (oppure anche prevalentemente borghese e libertaria) e ha abbandonato la sua tradizionale prospettiva di lotta e di liberazione basata sul superamento delle diseguaglianze economiche, nel momento stesso in cui la sinistra culturale ha scelto il “centro” e l’individuo piuttosto che continuare a lottare nelle e dalle periferie, ecco che probabilmente ha condannato le province/periferie a restar tali e a rinchiudersi nella più dura arretratezza culturale. L’amore di una madre può alleviare sul corpo del figlio le ferite inferte da una tale feroce arretratezza, può percepire il dolore del figlio, caricarselo addosso, sostenerlo nella paura e nella debolezza, ma un problema politico resta politico e va definito e risolto politicamente. È dunque necessario che la periferia /provincia cresca e si sviluppi gradualmente, sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista culturale, e che cresca in modo armonico se si vuole che sia definitivamente rispettato anche “un uomo a cui piacciono gli uomini”: le battaglie per l’affermazione dei diritti civili o delle libertà individuali delle persone omosessuali sono importanti, necessarie persino, ma se la dinamica socio-politica tra centro e periferia/provincia non cambia e la provincia non si sviluppa adeguatamente, anche i – sacrosanti - diritti civili resteranno fragili e avvertiti come lussi di cui magari si può benissimo fare a meno. Però attenzione, qui stiamo parlando di una grandissima esperienza di teatro e tutto questo non è comunicato nello spettacolo con una banale tirata ideologica, ma è contenuto – meravigliosamente implicato – nell’intima e affettuosa tenerezza del gesto con cui un figlio può confidarsi con la madre mentre con una pezzuola pulisce la foto di lei su una lapide. Viene in mente la lezione di Pasolini, certo, e si capisce un po’ meglio perché Saverio La Ruina e, con lui, tutto l’ensemble di Scena Verticale non possano far altro che vivere e creare e lottare solo in una realtà come Castrovillari.
 
di e con Saverio La Ruina.
Musiche originali Gianfranco De Franco, collaborazione alla regia Cecilia Foti, scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo, disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano, organizzazione Settimio Pisano, produzione Scena Verticale.

Foto Angelo Maggio