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Come annunciato durante la conferenza stampa, svoltasi il  6 giugno presso il Teatro Bellini , il Napoli Teatro Festival Italia 2017, nella sua nuova veste e attraverso il nuovo direttore Ruggero Cappuccio, inaugura il programma con William Shakespeare. Il progetto voluto da Gabriele Russo che, insieme ai fratelli, ha rigenerato e dato nuova vita al Teatro Bellini di Napoli, si basa su un elemento fondamentale: la riscrittura. Sia attraverso il libero adattamento, sia nella creazione di testo ex novo, il riferimento al testo classico e  l’utilizzo della tecnica della riscrittura sono due operazioni che precludono necessariamente la conoscenza approfondita della fonte e degli studi che ne hanno tenuto conto. Per questo motivo, il Festival e il Teatro Bellini si affidano all’esperienza e alla scrittura, testuale e scenica, di sei autori e di sei registi che hanno permesso la realizzazione di un

progetto coraggioso, ambito, culturalmente e artisticamente poderoso e potente. Parliamo di Fabrizio Sinisi e della regia di Andrea De Rosa per GIULIO CESARE; di Marina Dammacco, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella, e del marchio Punta Corsara per la messinscena di UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI; di Pau Mirò ed Enrico Ianniello, della regia di Francesco Saponaro, per RACCONTO D’INVERNO; di Giuseppe Miale di Mauro e Gianni Spezzano, per un OTELLO targato NEST, il teatro della periferia est di Napoli; di Michele Santeramo e della regia di Gabriele Russo per TITO; di Edoardo Erba e della regia di Serena Sinigaglia per LE ALLEGRE COMARI DI WINDSOR.
Nord e Sud si uniscono ricordando l’autore inglese, in attesa di un progetto che seguirà lo stesso processo nell’analisi di altri classici e di altri grandi autori.
Dal 6 all’8 giugno la platea del teatro Bellini si trasforma: dalle viscere delle quinte irrompe un palco dalle dimensioni considerevoli, una lingua bianca che ricorda l’apron stage  del teatro elisabettiano,  evitando, però, la presenza degli spettatori in piedi, ma relegandoli su panche frontali e sui palchetti. Rispettata la scelta delle aperture sul fondo, come quinte, e delle botole, ben tre, che ricordano quelle del teatro elisabettiano e la loro funzione nel far apparire i personaggi o nel far sparire cadaveri e oggetti. Quasi tutti gli spettacoli – che saranno riproposti ad apertura di stagione, all’interno dello stesso teatro, in occasione di un importante progetto di pubblicazione dei testi prodotti attraverso gli adattamenti – utilizzano le botole come “luogo altro”: dall’aldilà alla metafora del tempo, alle fogne, ai cunicoli o gallerie, insomma, ciò che sta sotto è funzionale allo svolgimento dello spettacolo e diventa luogo scenico, perdendo la connotazione di luogo “tecnico”. La necessità di utilizzare anche la platea, le entrate tra il pubblico, gli stessi palchetti, dona notevole mobilità alla visione, ma sembra, a volte, emergere da un bisogno insostenibile  di dover descrivere altro, perché il palcoscenico non basta.
Lasciando al pubblico quella piccola grande curiosità nel vedere, o rivedere, tutto il percorso drammaturgico e scenico dedicato a Shakespeare, citiamo alcuni degli spettacoli di cui siamo stati spettatori, meravigliati, indignati, sorpresi, accaldati.
L’apertura del progetto GLOB(E)AL SHAKESPEARE è affidata all’adattamento di GIULIO CESARE (foto d'apertura) firmato da Fabrizio Sinisi: ciò che colpisce immediatamente è l’atmosfera, oltre alla vista di una scenografia insolita. L’attenzione al testo conduce alla creazione di una drammaturgia completamente, o in parte, nuova, che prende spunto da quella shakespeariana attraverso un’operazione inaspettata. La scena è ripulita letteralmente dalla maggior parte dei personaggi previsti nel testo originale, e quindi da una parte delle lor battute, mentre Cesare è già morto. Vive, rivive e muore continuamente attraverso le parole degli altri personaggi, Casca, Cassio, Bruto e naturalmente Antonio. Le battute previste dall’autore vengono prosciugate e trasformate in narrazione, operando un ribaltamento nel lavoro drammaturgico che rende il racconto, e l’evocazione narrata, l’elemento fondamentale del prodotto scenico. Inquietante l’ambientazione, la sospensione del tempo, la tensione sostenuta sin dalla prima battuta fino all’ultima, attraverso un vero e proprio “sparagmos” scenico e concettuale di memoria classica che irrompe con musica, microfoni, e in particolare con la promozione della campagna di Filippi da parte di Antonio, quest’ultimo show man tra il pubblico, protagonista di un comizio surreale ed irriverente. Cesare è ricordato da coloro che lo hanno ucciso: Bruto l’uccisore, Cassio il fomentatore, Casca il servo che osserva e narra. Essi sono angosciati dall’azione commessa, un incubo che apre le viscere del tempo, quel “buco della storia” citato in scena, che apre una botola dantesca al cui interno viene riversata la terra sparsa sul palcoscenico. Una palla gigante incombe sulle teste, un pugnale la perfora, ricordando l’attimo del “Tu quoque, Brute, fili mi! “. Quintali di terra sono spalati e riversati nelle viscere della botola: il popolo che ricopre la tomba dell’amato e odiato Cesare è rappresentato attraverso un personaggio scuro e silenzioso che spala, che raschia il fondo della storia, e del palcoscenico, per un’intera ora, ricordando la scena del ritrovamento del teschio del buffone Yorick in Hamlet: essere o non essere, come saranno l’uomo, lo Stato, la storia, in futuro? Tra rinascita della repubblica e tirannide annunciata, Antonio, figlio adottivo del Cesare a sua volta adottato, acclama il ricordo dello zio defunto, dello Stato seppellito, della repubblica corrotta, e poi promuove la guerra. Lo spettacolo cambia i toni e Antonio diventa ennesimo dittatore. La contestualizzazione contemporanea si acuisce attraverso la citazione di tutte le armi di distruzione di massa che hanno caratterizzato la storia, fino ai giorni nostri. Ottima la performance di tutti gli attori e l’accurata attenzione nel ricreare un testo assolutamente nuovo che rispetti, però, la fonte ed il messaggio universale, seppur in maniera originale. La scelta di ribaltare i toni, con l’entrata in gioco di Antonio, è funzionale per far percepire al pubblico l’impatto violento con la realtà, con il cambiamento, nonostante, però, faccia crollare improvvisamente l’elegante suspense sostenuta per gran parte della durata dello spettacolo.
Impossibile esimersi dall’accennare anche all’adattamento di Pau Mirò ed Enrico Ianniello, riportato in scena attraverso l’elegante regia di Francesco Saponaro, confermando quanto sia efficace l’unione di questi tre nomi. Impeccabile in ogni particolare, seppur lievemente ridondante nelle scene macchiettistiche, la tragicommedia RACCONTO D’INVERNO  emerge notevolmente non solo per la perfezione registica, per l’eleganza scenica, per la giusta proporzione tra fonte e adattamento, in questo caso storico-concettuale, per l’attenzione scientifica ai topoi della poetica shakespeariana, ma soprattutto per la splendida interpretazione di tutti gli attori. Prima di ripercorrere i momenti fondamentali della messinscena, è doveroso, quindi, sottolineare la straordinaria interpretazione dell’ottimo  attore Edoardo Sorgente, nei panni di Leonte, così come di Mariella Lo Sardo nei panni di Paolina. La corte di Leonte è algida, atemporale, astorica, così come dovrebbe essere un adattamento. La scelta, stavolta, cade su un’accurata ricerca letteraria e linguistica che unisce la grande cultura eterogenea del Sud Italia. Shakespeare si trasferisce in Sicilia e improvvisamente emergono sfumature “gattopardiane”: Leonte accenna ad una lingua siciliana che dialetto non è, ma idioma spurio e teatrale. La nobiltà corrotta e in decadenza, descritta da Tomasi di Lampedusa, emerge e si mescola tra le trame della visione shakespeariana, ed entrambe concordano nel cambiamento, osando nella speranza ottimistica nel futuro, in quei giovani che uniscono le casate, liberi da imposizioni, attraverso l’agnizione finale, memore della grande commedia classica. Immagini bucoliche e travestimenti che ricordano la cultura sarda e lucana, i balli campestri che si scatenano al suono della pizzica, la nutrice, Paolina, che emerge nella grandiosità delle donne della tragedia greca, che incastra le battute originali con la parlata palermitana di poetica bellezza, che si siede in proscenio e utilizza la tecnica del cunto per inserire i flashback e gli inserti narrativi, affermando che «non è un cunto, è una commedia!».  La morte incombe su quelle regole decadute, sulla follia pirandelliana di Leonte/Otello e sul suo pentimento, diventa rinascita che dà vita alle nuove generazioni e  prega la statua della regina/Vergine.  Una sovrana, a metà tra la normanna Costanza D’Altavilla e la moderna Grace Kelly, diventa cerea icona da adorare, ricordando la mitologia greca e la devozione popolare del Sud verso le icone bizantine e le statue “vive” dei Santi. Questo straordinario spettacolo è coronato dalla voce di Rosa Balistreri  e dalle sonorità della grande cultura della scuola poetica siciliana di Federico II.
Cambiano i toni e le ambientazioni nell’ OTELLO realizzato attraverso l’adattamento di Giuseppe Miale di Mauro, con la drammaturgia di Gianni Spezzano e la regia dello stesso Miale di Mauro. Lo spettacolo riporta la connotazione NEST- Napoli Est Teatro, e rimane fedele ad una contestualizzazione specifica che tiene conto dei luoghi, ossia la periferia napoletana, della lingua, ossia quella napoletana nelle sue varianti di zona, e dei fenomeni d’attualità. L’unione tra Otello e Desdemona è trasferita bruscamente all’interno di uno “sposalizio” napoletano. Guglielmo, l’autore, diventa un giovane rapper campano, Ralph P – scelta utilizzata anche nell’introduzione al “Sindaco del Rione Sanità”, in scena al NEST con la regia di Mario Martone -  che introduce la storia e rimane in scena, sul fondo, utilizzando percussioni, effetti sonori e microfoni, per raccontare le connessioni tra le scene ed i cambi temporali. Il Guglielmo-William, nei panni del narratore, è affiancato da un coro di ragazze e ragazzi, invitati al matrimonio, che consigliano, commentano, patteggiano per Desdemona o per Otello, interpretati dal gruppo #GiovaniO’Nest ( gioco di parole  “giovani del Nest- giovani onesti”). Otello, ragazzotto della periferia, del quartiere o del rione, nei panni di Francesco Di Leva, assume l’atteggiamento del signorotto-boss che si rende conto della sua “diversità” culturale e sociale, rispetto alla colta ed elegante Desdemona, interpretata da Martina Galletta. Completano il cast Adriano Pantaleo, nei panni di Iago, Giuseppe Gaudino in quelli di Roderigo, Andrea Vellotti nei panni di Cassio, Viviana Altieri nei panni di Emilia.  Rispettato dunque, in parte, il riferimento alla frustrazione ed al concetto di diversità che matura in Otello e che attecchisce velocemente perché fomentato dall’operazione di Iago. La regia sceglie di vestire le donne con abiti succinti – Desdemona indossa un bianchissimo abito trasparente che tutto lascia intravedere -, con un pesante trucco, di far indossare scarpe kitsch, ricordando la veracità e l’esuberanza delle donne dei quartieri popolari. Gli uomini assumono i rituali da “branco”, fumando ripetutamente erba, maneggiando armi ed utilizzando un linguaggio che mescola le battute shakespeariane alla lingua ibrida napoletana della periferia. L’adattamento in questione punta evidentemente sul tema, forse ormai abusato, della violenza sulle donne. Ecco, quindi, che la gelosia di Otello si trasforma in una materializzazione dei pensieri perversi, attraverso la proiezione di un estratto di un film porno: il marito immagina dunque il tradimento di Desdemona, catapultando Shakespeare nei meandri oscuri dell’intimità perversa di alcune famiglie. La gelosia, instillata da Iago nel povero Otello, perde la connotazione originaria, pur riagganciandosi al concetto di potere, in questo caso sulla donna e sugli affari, attraverso l’istigazione alla violenza. Otello minaccia Desdemona, la ama, piange, ha già deciso, da “uomo d’onore”, di eliminarla, attraverso lunghi monologhi, lunghe tirate, a tratti eccessive nel pathos,  durante le quali l’attore scaglia sul palco le coperture delle botole e riversa tutta la sua rabbia verso il pubblico. La regia sceglie, quindi, di utilizzare la botola più grande come talamo nuziale: lenzuola di seta bianca accolgono l’atto sessuale, apertamente mimato, che vede l’attore muoversi sull’attrice, mostrando il fondoschiena ed uccidendola con la violenza sessuale. Ci si chiede se fosse necessario tutto questo, nonostante la caratterizzazione “napoletana” appaia sicuramente originale; il testo shakespeariano è sfrangiato, ridotto, modificato, e trasforma l’universalità del messaggio in una forzatura mirata ad un adattamento ad un contesto sociale e culturale che ha, è vero, le sue regole ed i suoi codici, ma che si distacca dal pensiero originario. Il matrimonio segreto qui diventa pubblico, descritto in pompa magna, rumoroso, barocco, gipsy. Il Cassio che subentra a Otello è descritto come il debole, il deriso, personaggio quasi femmineo, legato a Desdemona da amicizia sincera e intellettuale, ma anello debole di un mondo in cui prevale la legge del più forte. Otello non muore, ma uccide, continuando a far sopravvivere un’etica che, certamente, non è quella del grande onore e dei grandi personaggi shakespeariani. Il Nest ha il grande pregio di aver avvicinato al teatro fasce sociali e culturali che non avrebbero mai conosciuto questo mondo: anche in questa occasione i palchetti del teatro Bellini si riempiono di famiglie, di adolescenti, che acclamano i loro maestri ed i loro amici, lì sul palco.
Accanto alle tragedie, il progetto GLOB(E)AL SHAKESPEARE prevede la messinscena anche delle commedie. Gli spettatori possono, dunque, decidere di seguire due spettacoli ogni sera, una tragedia ed una commedia, o di sceglierne solo uno. Ancora un marchio prettamente campano, seppur conosciuto ormai a livello nazionale, ossia PUNTA CORSARA, nelle vesti di Marina Dammacco, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella, firma UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI, che vede in scena tutta la compagnia e le musiche originali di Giovanni Block. Stavolta l’ambientazione è italo-americana, agli inizi del Novecento, ricca di spunti e di memorie cinematografiche, soprattutto legate all’utilizzo di effetti sonori e di sonorità che ricordano alcuni importanti film della storia del cinema. La scenografia è caratterizzata unicamente da casse di legno  che riportano la scritta RUM – ricordando il periodo del proibizionismo americano - che, alternativamente, diventano porta, barriera, sedia, scala e il cui continuo spostamento dà vita ad un ricco movimento sul palco. L’adattamento testuale e scenico tiene conto degli equivoci riportati nella fonte e li rende materiale visivo attraverso il movimento incessante di tutti i personaggi. Tra travestimenti e confusione, questo spettacolo utilizza, forse più di tutti, le botole, ricreando, attraverso le voci e l’immaginazione, un mondo sotterraneo che viene identificato con le fogne di New York. Ritroviamo la commedia classica, la farsa napoletana, i lazzi della commedia dell’arte, il cinema italo-americano, e naturalmente il gioco linguistico che caratterizzava, secondo gli studi più noti sull’emigrazione, gli Italiani sbarcati a New York, e soprattutto i napoletani che imparavano l’inglese ( a tal proposito, testimonianza importante sono le Macchiette Napoletane riportare sul settimanale italo-americano «La Follia di New York»). Lo scambio di persona e l’agnizione finale sono elementi cari all’autore inglese, derivanti da una tradizione classica ben più antica e assorbiti, poi, dalla commedia dell’arte e da quella napoletana. Gli errori e gli equivoci narrati da Shakespeare diventano qui “spaesamento”, ossia mancanza di identità, o meglio confusione di identità, condizione vissuta a lungo dai nostri connazionali emigrati in America, costretti a modificare il nome e a renderlo anglofono, costretti ad inventarsi un lavoro, anche se poco onesto, costretti a imporre la propria autorità solo attraverso i meccanismi della malavita. Ciò che colpisce fortemente è l’utilizzo delle botole e del mondo sotterraneo, quasi ad indicare il livello infimo in cui erano stati declassati gli Italiani in America, i quali, nonostante arrivassero in Italia le notizie esaltantti di lavoro e paghe, erano costretti a condizioni di isolamento e di sfruttamento. La volontà di emergere, di integrarsi, di uscire fuori dal mondo sotterraneo, il sogno americano dell’arricchimento, sono tutti elementi che connotano continuamente questa commedia. Punta Corsara cuce sopra il testo/fonte un mantello di ironia amara che fa sorridere, ridere apertamente - anche se alcune scene si dilungano eccessivamente in dialoghi, battute e improvvisazioni che sembrano ritardare volutamente lo scioglimento della questione – conducendo lo spettatore verso la dolorosa consapevolezza di una condizione storicamente veritiera. La voglia di emergere, di modificare la propria vita, appare come una disperata ricerca di sé, come un cercare ossigeno attraverso le botole, dove sotto risuonano gli spari, le urla, ciò che non si può far vedere apertamente a chi è rimasto in Italia e sogna ancora l’America. Emerge ogni singolo attore della compagnia che riporta, anche in questo spettacolo, delle caratterizzazioni specifiche, già conosciute e viste anche in altri lavori, elementi, cioè, che permettono allo spettatore affezionato di riconoscere subito l’attore e le sue caratteristiche.  Lo stile Punta Corsara è, dunque, riconoscibile subito, e non è nuovo al recupero di testi classici, basti ricordare HAMLET TRAVESTIE, che tocca tre grandi autori: John Poole, Antonio Petito e naturalmente William Shakespeare.

NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA 2017
PROGETTO GLOB(E)AL SHAKESPEARE
TEATRO BELLINI
6-8 GIUGNO 2017

foto TEATRO BELLINI