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Il primo interrogativo che ci visita immediatamente dopo aver visto “Il cantico dei cantici” di Roberto Latini, l’interrogativo più urgente, non riguarda tanto il “come” di questo spettacolo, ma davvero il suo, o i suoi, “perché”: si possono infatti pensare, trovare e poi scrivere moltissime cose sul “come” Latini ha costruito questo suo affascinante lavoro (riferimenti testuali, iconici, elementi spaziali, musicali, stratificazioni, sotto-testi, elementi meta-teatrali), che è andato in scena, in anteprima nazionale, il 3 giugno scorso a Castrovillari (Primavera dei teatri 2017) nella Sala Consiliare, ma la domanda a cui una riflessione critica non può sfuggire è “perché”: perché ha scelto questo testo? Perché lo ha voluto riscrivere scenicamente? Perché proprio il biblico Cantico dei Cantici? Inseguendo quale necessità culturale o politica, quale urgenza? Una domanda, complessa, a cui si

può anche non saper o non poter rispondere, ma che non va elusa. Occorre invece, onestamente, perderci un po’ la testa. Perché mai un teatrante italiano, attore, interprete, regista, raffinatissimo performer, amato dal pubblico e dalla critica, geniale persino nel costruire il suo inconfondibile linguaggio scenico, decide di accostarsi a un antico testo ebraico di meravigliosa bellezza composto o formalizzato, secondo l’opinione più diffusa, intorno al IV secolo a.C. (ma probabilmente sulla trama di un vasto e assai più antico patrimonio tradizionale di canti e poesie di argomento erotico) e finito, con non poche difficoltà, nel canone biblico? Perché costruire oggi uno spettacolo su un testo del genere? Quale percorso intellettuale può indurre a questo esito? Latini ci tiene a ricordare che si tratta della quarta tappa del suo progetto Noosfera (dopo Lucignolo, Titanic e Museum: «“noosfera”, dalla reinterpretazione di un concetto legato alla sfera del pensiero umano, sintetizza e definisce una sorta di “coscienza collettiva”») e che, soprattutto, la sua traduzione del testo antico e la costruzione scenica che ne propone partono dal presupposto che questo testo sia totalmente estraneo a qualsiasi contenuto, senso, afflato religioso, mistico o anche solo spirituale. Si lavora su un testo d’amore pieno e carnale tra un uomo e una donna, tra due giovani amanti, un testo antichissimo e (anche) per questo senza tempo, assoluto, un testo del quale si percepisce tutta la potenza dell’ispirazione erotica e si tralascia qualsiasi significazione allegorica che le tradizioni ebraica e cristiana hanno (o avrebbero) proiettato su di esso. La scelta di Latini è chiara, radicale, non ammette repliche o dubbi (che pure sarebbero legittimi, perché magari in duemila anni la tradizione qualcosa di interessante avrà pur detto). Ma perché portare in scena questi versi d’amore, proprio questi, non appare del tutto chiaro. Occorre a questo punto arrendersi, ritornare alla forma, ritornare al “come”, provare a ricostruire dalla stessa evidenza materiale di questo spettacolo un suo senso possibile. C’è un varco che può consentire una risposta: il/la protagonista della messinscena è un dj, un androgino, un clochard che dorme su una panchina e al risveglio, da una postazione radio, declama on air i meravigliosi versi del Cantico, li declama e, forse ancor più e prima che declamarli, li attraversa, li vive, li danza (al suono di una gamma di musiche che va da Raffaella Carrà ai Placebo), ne gioisce, li subisce arrendendosi alla loro primitiva potenza, li accoglie nel proprio corpo sessuato e nella presenza/assenza della persona amata a cui pare rivolgersi e con cui, a tratti, pare dialogare a distanza. Lo straniamento rispetto ad ogni attesa che la tradizione (religiosa, artistica, culturale) avrebbe supportato è totale ed è superfluo dire che si tratta di Latini che interpreta, amplia e approfondisce il mondo poetico e il linguaggio di Latini, nel bene e nel male. Un essere umano dunque: non una ragazza, non un ragazzo, non un uomo, non una donna, non un trans, un essere umano unico, assoluto, autentico, innamorato, autentico perché innamorato. E si parla dell’amore, del suo apparire e del suo impensato deflagrare in una condizione di perturbante alterità, si parla della sua essenza che è onirica e però morde e incide la nostra carne; si parla dell’amore che ci cura e ci ammala allo stesso tempo, che ci salva e ci tiene in vita perché, lui sì, è più forte della morte. Ecco, forse, il senso profondo di questo spettacolo e non era affatto superfluo ribadirlo con la cruda verità della poesia e di un corpo teatrale che dalla poesia sa farsi possedere senza ritegno.

Adattamento e regia Roberto Latini,
Musiche e suoni di Gianluca Misiti, luci e tecnica di Max Mugnai, con Roberto Latini. Organizzazione di Nicole Arbelli, foto di Fabio Lovino / Angelo Maggio. Produzione di Fortebraccio Teatro con il sostegno di Armunia Festival - Costa degli Etruschi; con il contributo di MiBACT e Regione Emilia-Romagna.