Pin It

La perseveranza di Kronoteatro di Albenga e di Maurizio Sguotti, che ne è l’ideatore, anche quest’anno, contro ogni avversità vecchia o nuova, ha prodotto frutto e, mi sembra, un buon frutto tra le serre e le terre della omonima piana. E poiché perseverare è talora “diabolico” lo ha fatto seminando e volendo far germogliare dubbi, il dubbio creativo e spiazzante dell’arte scenica, alla faccia proprio di quelle avversità esorcizzate da un poetico e fiorito “sberleffo” che fa da immagine guida del Festival. L’abbinamento e la sovrapposizione linguistica sono semplici e coerenti, e non è il caso di tornare a soffermarci, ma comunque molti uomini di teatro in quella sovrapposizione hanno potuto rintracciare il senso nuovo di un teatro che feconda, a volte anche solo per il capriccioso volteggiare del vento che lo circonda. Dal 5 al 7 agosto dunque anche quest’anno, per

l’ottava volta, il Festival si aggira tra le “regioni” e i borghi che frammentano e compongono la piana di Albenga. E non era detto, visto che sempre di più le istituzioni che dovrebbero tutelare le comunità, spesso assetate di teatro come dimostra il successo anche di questo Festival, voltano lo sguardo altrove. Forse mascherarsi come fa Terreni Creativi e sovrapporsi ai luoghi dell’economia può essere utile, anche perché il silenzio che ormai circonda questi eventi di arte e teatro si fa assordante. Speriamo che il senso di stanchezza che sembra pervadere la comunità del teatro sia solo occasionale e non porti man mano a essiccare fermenti e idee creative.

Si è cominciato sabato 5 negli ampi locali della “Ortofrutticola” con 3 interessanti spettacoli.

INDOOR
L’identità e la solitudine e la coppia come solitudine duale, una solitudine cioè vissuta autonomamente ma che non può e non vuole prescindere dall’altro da sé. Un uomo e una donna, dunque, sembrano coordinare coreograficamente le loro reciproche differenze/distanze, non per superarle di slancio ma forse solo per misurarle e così ribadendole, preservarle per sempre anche oltre la contingenza e l’esistenza stessa. Spettacolo che abbina e miscela, con qualche occasionale incertezza, drammaturgia e danza, una danza che richiama insistentemente tic e coazioni (sullo sfondo una partita a tennis) a surrogare una autenticità perduta. Il mondo fuori esiste solo come un riflesso del nulla che li circonda mentre la parola cerca quasi di “ordinare” e “sistemare” senza pienamente riuscirvi. Un richiamo meta-teatrale chiude infine il confronto/scontro lasciandoci sospesi. Un buon spettacolo della compagnia DEGO/MOR di e con, appunto, Anna Dego e Alessandro Mor. Il disegno luci è di Stefano Mazzanti e le elaborazioni musicali di Carlo Dall’Asta. Una coproduzione con Fattoria Vittadini in collaborazione con residenze artistiche C.L.A.P. Spettacolodalvivo e Olinda.

TO BE OR NOT TO BE ROGER BERNAT
Il discorso sulla identità e sulla sua sovrapposizione traversa e attraversa il teatro da sempre (c’è un attore, c’è un personaggio, c’è un drammaturgo, c’è uno spettatore e ci devono essere tutti insieme lì, contemporaneamente) ma affrontarlo esplicitamente sulle tavole del palcoscenico è molto difficile, a volte improbabile e inattuale, quasi che sciogliere quel nodo in scena significasse il rischio di dissolvere il teatro stesso con il suo mistero. FANNY & ALEXANDER, cioè Luigi de Angelis e Chiara Lagani che curano ideazione, drammaturgia e regia, e con loro Marco Cavalcoli che “tiene” la scena con maestria e fascinazione, ci provano partendo un po’ di sbieco, con sguardo indiretto, puntando cioè la loro attenzione sulla prevaricazione e sull’usurpazione che quel meccanismo scenico produce, e dunque sulla violenza, intima ma traslata ed elaborata, che sussiste in quel contesto nei rapporti tra i diversi soggetti portatori di “identità”. Lo fanno attraverso uno scambio, quasi un vaso comunicante che dallo squilibrio tende all’equilibrio, con il catalano Roger Bernat, drammaturgo e performer che intorno a quel quesito ha costruito le sue più famose drammaturgie. Ma entrambi non sono soli, dentro e attorno a loro vivono e si materializzano nella parola i fantasmi di un Amleto che il Bardo sembra aver disseminato nel mondo/teatro alla ricerca di una identità che lui stesso ha celato e quasi deflagrato nel personaggio così divenuto immortale. Su tutto i drammaturghi confondono le sintassi enfatizzando una apparente introspezione del senso del teatro con la costruzione di un linguaggio scenico rinnovato e potente che trascina in alchimie inaspettate antico e moderno, corpo e virtualità, immagine e suono. Si dispiega così una drammaturgia singolare in cui il pubblico stesso è spinto a dimenticare i confini e dove il suo coinvolgimento alla fine è solo apparente ma non meno sincero, e dove lo scandalo di bernhardiana memoria assume i tratti del risveglio. Uno spettacolo di valore, per drammaturgia e ideazione, dove Marco Cavalcoli può esprimere molto della sua interessante cifra recitativa.

SORRY BOYS
È interessante rivedere anche dopo poco tempo uno spettacolo poiché, come insegnano i grandi critici italiani a partire da Gobetti e Gramsci, sul palcoscenico niente è mai eguale a sé stesso, anzi lo stesso testo quasi si deforma nel suo occasionale transito scoprendo parti e visioni inaspettate. Succede anche con questa drammaturgia, tra narrazione e figura, di Marta Cuscunà che chiude la giornata e la cui rinnovata visione, oltre le citazioni di una contrapposizione femminile anarchica e spiazzante, sospesa tra Bakunin e Ibsen (o Wedekind, o Strindbergh ovvero il nostro Rosso di San Secondo), mostra una sintassi più matura con la quale l’attore (nascosto ma ben presente) si trasfigura nella maschera, così come il personaggio nella scrittura drammaturgica creando uno spazio funzionale al giudizio e alla interpretazione dello spettatore. Coprire per disvelare dunque, per animare l’inanimato, metafora questa di Società incapaci di rinnovarsi e comprendersi. Hanno collaborato alla messa in scena Paola Villani con la progettazione e realizzazione delle dodici teste mozze e l’assistente alla regia Marco Rogante, nonché Claudio “Poldo” Parrino per le luci, Alessandro Sdrigotti per il suono e Andra Pizzalis per le animazioni grafiche. In co-produzione con Centrale Fies. A fine spettacolo alla drammaturga è stato conferito in scena il Premio “Donna per la Donna” dello Zonta Club di Alassio-Albenga, per la coerente sensibilizzazione sui comuni temi della condizione femminile.

Domenica 6 agosto tra le serre di Terraalta.

MANGIARE E BERE LETAME E MORTE
Coreografia drammaturgica ovvero drammaturgia coreografica di forte impatto visivo, ma non solo e non soprattutto, di forte impatto emotivo e cognitivo, che riesce a mescolare quasi la materia con lo spirito, il pensiero con il corpo, il soffio che provvisoriamente abita gli esseri viventi e quelli stessi viventi, un soffio la cui infinità ed eternità non sembra, paradossalmente, poter fare a meno di quella finitezza, di quella contingenza, di quel corpo che a mala pena si distingue dalla materia grezza, mai smettendo di esserne attratto. È uno spettacolo che nasce da una riflessione molto teatrale se vogliamo, da una sovrapposizione sintattica e significante, quella dell’attore come “animale da palcoscenico” e da questo punto si allarga a spirale, la spirale del ricordo che si dipana tra desiderio e delusione, tra vicinanza e abbandono, tra sensualità e abbandono, continuamente richiamati dalle voci narranti e fuori campo. Così l’attore diventa colui che, come un animale, è capace di fare quello che tu, spettatore, desideri ma non sei in grado di fare, ed è così capace di darti la percezione di quel sentimento di unità da cui attingere senso alla vita, direttamente senza mediazione alcuna. “L’attore è in scena per noi, al nostro posto” scriveva Edoardo Sanguineti, “e lo spettatore ha le interpretazioni che sa, che può, che merita”. Il corpo della ballerina si fa dunque mediatore dei desideri e della libertà che ciascuno, anche inconsapevole, continua a coltivare, anche la libertà di tornare alla terra che ci ha generato con amore ma con il limite insuperabile della vita che si consuma. In scena una Alessandra Fabbri che arriva a trasfigurare anche il suo sé fisico nel movimento coreutico. Una drammaturgia di Davide Iodice che cura anche la regia, mentre ha creato la coreografia insieme alla brava Alessandra Fabbri. Così il supposto scandalo si perde nell’ingenuità di una adesione al mondo e a sé stessi che richiama incessantemente i toni e i colori dell’infanzia. Una produzione “Interno 5”.

IL DESIDERIO SEGRETO DEI FOSSILI
Nasce da una intuizione profonda e, se vogliamo, perturbante questa drammaturgia della compagnia “Maniaci d’Amore” che esplora il territorio misterioso in cui, come in una palude, affondano le fragili palafitte della nostra trafitta identità. Il territorio che sta tra il sogno e la veglia e che la televisione e le sue ideologiche sintassi surroga sempre più violentemente, un territorio che mostra impietoso dove alla fine siamo tutti arrivati. A Petrosa non c’è acqua e tutto, ma proprio tutto, è un eterno presente in cui nulla accade, neanche la morte; e se non c’è la morte come può esserci la vita? L’unico luogo in cui le cose succedono (per finta ovviamente) è la serie televisiva perenne come una soap: “Vite che annegano”. Un imprevisto corto circuito tra i due luoghi sembra portare alla distruzione di entrambi: vita e morte irrompono come un fiume in piena liberato da una diga crollata. Metafora dunque di ciò che siamo, di una società senza vita e di una cultura incapace di contatto. Metafora anche dell’arte scenica che scava come un rabdomante alla ricerca dell’acqua e quindi della vita, una vita che in scena, infine, ha il volto di una bimba dal tenero sorriso. Una bella drammaturgia che sa utilizzare ironia di scrittura e grottesco recitativo ma che però devo forse ancora trovare una piena coerenza narrativa che dall’intuizione iniziale costruisca pienamente un percorso di conoscenza reciproca. Molto bravi in scena Francesco d’Amore e Luciana Maniaci (da cui il nome della compagnia) che sono anche i drammaturghi e i registi, e bravo anche il giovane David Meden/Jhonny Water, eroe mancato. Una produzione Maniaci d’Amore/I teatri del Sacro.

MILITE IGNOTO – QUINDICIDICIOTTO
Con l’estetica del miglior teatro di narrazione questo monologo drammaturgico compone una favola surreale o surrealistica dove il sogno confonde la materialità sanguinante di una vita in guerra, posta ripetutamente di fronte alla morte tanto, alla fine, da quasi desiderarla. L’attore narratore compone e scompone le identità molteplici di quegli anonimi soldati mandati dal loro piccolo paese a morire in trincea nella Grande Guerra. Lo fa utilizzando e miscelando le disparate lingue e dialetti di cui ciascuno era portatore e che, proprio nella reciproca diversità, lo rendeva compagno di quelli che come lui aspettavano impauriti l’ultimo boato. Così le identità molteplici e multiformi diventano una, diventano l’unità di un comune destino, un destino di rabbia e di paura che scoperchia le ipocrisie e le menzogne di chi quella guerra volle ma non combatté. Anche questi ultimi sono molteplici, si chiamino clero e politici, re e alti comandi, ma in fondo anche loro sono uno solo (il capitale), come quelle vite al massacro intuivano forse senza capire. La narrazione diventa dunque drammaturgia di voci e di suoni, capace di accogliere il pensiero di tutti e di ciascuno. Prende vita così un milite ignoto, quello della consapevolezza, cui nessuno rende omaggio e che ancora aspetta su quelle montagne, ormai da cent’anni. Commovente anche se con qualche passaggio di troppo in cui l’attenzione incespica. In scena il bravo Mario Perrotta che ha scritto il testo dal libro “Avanti sempre” di Nicola Maranesi e dal progetto “La Grande Guerra, i diari raccontano” a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi. Una produzione Permàr – Archivio Diaristico Nazionale – DUEL – La Piccionaia.

Lunedì 7 agosto e le piante aromatiche di RB PLANT.

VOUS ETES PLEINE DE DESESPOIR
Come nel negativo di una foto ancora in bianco e nero questo spettacolo di teatro/danza, così si definisce ovvero auto-definisce, sceglie il silenzio e l’immobilità per mostrarci a calco, con il sogno la realtà della vita, quella in cui sembriamo rischiare di precipitare in ogni momento del nostro singolo passaggio, e con l’assenza un luogo dove finalmente stare. Un luogo e un tempo mitico come quello della sirena spiaggiata al centro della scena che fa della sua inesistenza (ovvero della sua cadaverica presenza da cetaceo perduto ovvero da migrante abbandonato in una camera mortuaria) una vera e propria ragione di essere. Messa in scena perturbante e talora fastidiosamente aggressiva esplora zone oscure, della mente e dell’animo, ma, a mio avviso, appare viziata da un eccessiva intellettualizzazione con assenza del cuore, così che nella lontananza evocata può perdersi il significato stesso del nostro mostrarsi e confrontarsi in vita. Una sintassi scenica prevalentemente performativa di e con Alessandro Bedosti, Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, con la partecipazione di Giuseppina Randi (la sirena spiaggiata). Una produzione Teatro delle Moire-Alessandro Bedosti/Danae Festival.

ACQUA DI COLONIA, PRIMA PARTE: ZIBALDINO AFRICANO
La cifra profonda dell’ironia drammaturgica di Elvira Frosini e Daniela Timpano, drammaturghi dalla scrittura graffiante ma quasi profondamente “stupita”, è una sorta di sensazione di assedio semantico ma illogico, l’assedio del “luogo comune” che in questa nostra società, che definire liquidamente malata non è ancora un eufemismo ma appare ormai tristemente superfluo, soffoca il pensiero ed anche il sentimento, la ragione con il cuore. Oggetto di questa loro ultima drammaturgia/smascheramento, di cui al festival è stata presentata la prima delle due parti, è un argomento da qualche anno in evidenza: quello dell’immigrazione dall’Africa (la famosa o famigerata “invasione”) con il suo tragico seguito di barconi e morti in mare. Timpano e la Frosini cercano di affrontare lo spinoso argomento prendendolo di dritto e di traverso, a partire appunto dall’elencazione “seriale”, come in un “catalogo” di Alberto Arbasino o al modo di Carlo Emilio Gadda, dei luoghi comuni che circondano e pervertono la nostra percezione dell’evento. Provano dunque con una tale sintassi ripetitiva, eccessiva e smisuratamente stereofonica a scuotere i macigni davanti ai nostri occhi per farci vedere la realtà del fenomeno oltre la pagliuzza nell’occhio dell’altro e dell’altrove. Provano ad andare direttamente oltre, nei luoghi e nella storia, fin nella cronaca dell’italianissimo colonialismo tragico e straccione, ma, paradossalmente, più vanno avanti e più quei luoghi e quella storia sembrano riprodurre parossisticamente quei medesimi luoghi comuni da smascherare. I Sisifo della ragione e dell’arte devono dunque ricominciare sempre dallo stesso macigno. Provano anche a farcela vedere quell’Africa che non vogliamo capire, in carne ed ossa, in persona, portando in scena un ospite (sempre diverso e occasionale) che non conosce lo spettacolo ma ne fa da testimone. Una drammaturgia difficile e complessa oltre l’apparente sintassi leggera che la multimedialità ed il multilinguismo efficacemente le conferiscono. Aspettiamo con interesse di vedere la seconda parte. Testo, regia e interpretazione di Elvira Frosini e Daniele Timpano, consulenza Igiaba Scego. Aiuto regia e drammaturgia Francesca Blancato. Voce fuori campo (bambino Unicef) di Sandro Lombardi. Una produzione Accademia degli Artefatti e Kataklisma teatro, con il contributo di Romaeuropa Festival e del Teatro della Tosse. L’ospite di Albenga, di  grande presenza scenica,  è stata la signora Amadasun Shilla.

UTOPIA
Chi meglio di un clown o di un buffone può parlare oggi a noi e tra noi di utopìa, o meglio di utòpia come la pronuncia Leo Bassi con una efficacia sonora a mio avviso potentemente moltiplicata? Nessuno, credo, perché il male di questo nostro mondo secondo il clown ed il buffone, che ancora e non sapendo fino a quando vi si aggira sempre più spaesato, è appunto la mancanza di fantasia. È l’aver scacciato dalle nostre strade, dalle nostre piazze, dalle nostre stesse case il sogno, quel sogno che da secoli sgangherati baracconi e inattuali giocolieri hanno portato per il mondo. Da lì è nato il circo ma proprio lì si è rifugiato il teatro prima di ritornare a calcare le assi di un palcoscenico istituzionale. Ma il clown, come un fool shakespeariano, non si limita ad osservare e a constatare, il buffone è ancora capace di accusare come l’antico filosofo Diogene. Così Leo Bassi, ultimo di una famiglia di famosi artisti di strada, protetto dal suo stesso costume dai mille colori e dal suo berretto di finto marzapane, più forti di una corazza, può smascherare l’ipocrisia dei potenti, delle chiese e del capitale, che stanno definitivamente uccidendo il sogno, non solo nelle nostre strade e nelle nostre case ma fin dentro ai teatri assediati. Uno smascheramento che riguarda il teatro stesso come dimostra il gioco dello spettatore invitato a farsi tagliare la maglietta. Bassi suscita da una parte del pubblico una pressione sempre più forte sul prescelto finché questo non cede. Poi lui stesso svela e denuncia il meccanismo denudando così il pubblico stesso. Spettacolo sgargiante e coinvolgente ma anche profondo e difficile cui la vena malinconica di quel clown bianco in scena, tra scherzi, magie e calambour, conferisce una tonalità di profonda e disvelante ironia. Di e con Leo Bassi. Bello.