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Marco Martinelli torna al Festival della Mente di Sarzana estremo lembo orientale della Liguria, un Festival peraltro non teatrale ma capace comunque di raccogliere gli umori e gli stimoli di ogni forma di ricerca culturale, soprattutto attraverso gli uomini e le donne che testardamente aprono e percorrono quelle vie, attraverso dunque il loro sguardo curioso e anche al di là delle loro stesse opere. Torna a Sarzana con Ermanna Montanari, l’altro polo ineludibile che sprigiona l’energia che “fa” da trent’anni il teatro delle Albe di Ravenna, e lo fa per presentare il suo primo film (e non sarà l’ultimo promette Martinelli) che è una sorta di translitterazione, tramutazione e metamorfosi linguistica dell’omonima sua

drammaturgia, che dal 2014 tanto successo ha avuto nei teatri di tutta la nostra penisola. È proprio in questo spazio, nello spazio che si apre tra il linguaggio drammaturgico per sua natura contingente e quello cinematografico che esplora e con questo fissa altre dimensioni dello sguardo, che si produce un paradossale effetto di riscoperta, quasi che il testo drammaturgico per una combinazione alchemica con la luce dell’occhio cinematografico sollecitasse nuovi pensieri e nuovi sentimenti.
Così eguale a sé stessa dunque, la storia di questa donna coraggiosa e famosa ridefinita nello sguardo affettuoso di Ermanna Montanari e attraverso questo riportata all’essenza di una umanità comune, oltre la politica che pure l’attraversa e le dà forma, eppure così diversa nel suo ascolto “visivo”, ossimoro questo solo apparente, che colloca il palcoscenico in un altrove conosciuto ma insieme nuovamente pieno di mistero, pieno di nuovi angoli e nuove visuali che la cinepresa ricerca quasi con ostinazione.
Molto efficace, ad esempio, la bellissima sequenza del dolore per la morte del marito lontano, una sequenza segnata dalla capacità di fissare quella disperazione nell’astrazione di movimenti recitativi che ci ricordano il teatro “No” ed in cui la sapienza di attrice di Ermanna Montanari può esprimere tutta la sua forza e tutta la sua fascinazione.
Marco Martinelli, alla fine della proiezione, spiega infatti, quasi confessa, che ha pensato il film per cercare il volto di Ermanna, in quei primi piani che ricordano il cinema di Ejzenstejn e Dziga Vertov, perché nel volto di Ermanna che dà vita a  Madame Aung San Suu Kyi può riconoscere il valore universalmente umano, quasi “prossimo”, di una esperienza esistenziale apparentemente lontana, una esperienza che, lo ricorda Ermanna, ha un solo coraggio, il coraggio ormai quasi dimenticato di cercare, se ancora può esistere, la “bontà”.
Una “bontà” che ancora vive e si rafforza nella sua declinazione buddista, e anche proto-cristiana se vogliamo, che vive cioè non della debolezza, ma piuttosto nella forza di una non-violenza scevra delle ingenuità di tanto finto buonismo occidentale.
Dello spettacolo teatrale abbiamo già dato conto in queste pagine, pertanto in chiusura ci piace ricordare che l’una, la bella drammaturgia, e l’altro, il bel film, non si esauriscono l’una per l’altra, ma possono solo sommarsi e arricchirsi nella visione distinta.
In attesa di una nuova prova cinematografica di Martinelli e della Montanari, ma ricordando il precedente del bel video di “Rosvita”, speriamo che il film trovi il sufficiente numero di sale per accogliere gli spettatori che merita.