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Nel 1994 insieme ad una ventina di giovani artisti Andrea Paolucci fonda la Compagnia del Teatro dell'Argine di cui è direttore artistico insieme a Nicola Bonazzi e Micaela Casalboni. Dal 1994 ad oggi firma la regia di più di 20 spettacoli e conduce laboratori di recitazione e di regia destinati a principianti e a professionisti. Inoltre scrive una decina di testi teatrali  tra cui – insieme a Luigi Gozzi, Pietro Floridia e Nicola Bonazzi – L’attentato, pubblicato da Clueb nel 2004 e segnalato su questo sito. Dal 2000 dirige l'ITC Teatro di San Lazzaro, sala da 220 posti alle porte di Bologna.

MD. Andrea, il Teatro dell’Argine nasce in un certo senso “decentrato”, sia rispetto ai grandi teatri metropolitani che rispetto ai fermenti di ricerca che caratterizzano l’Emilia e la Romagna. Eppure, evitando il rischio di rimanere schiacciato tra queste due realtà, ha saputo con il tempo ritagliarsi un suo spazio autonomo e singolare. Quali sono dunque le caratteristiche, artistiche e produttive, di questa comunità creativa?

La nostra all’inizio è stata la storia di tanti giovani gruppi: un mettersi insieme, un cercarsi tra consimili, un riconoscersi. E insieme cercare un linguaggio comune, una via per costruire il proprio teatro, puntando, perché no?, a realizzare “lo spettacolo più bello del mondo”.
Era il 1994 e avevamo tra i 20 e i 25 anni. Poi nel 1998, inaspettatamente, abbiamo vinto la gara d’appalto per la gestione di una piccola sala da 220 posti alle porte di Bologna. Così è cominciata l’avventura dell’ITC Teatro. Ed è iniziata la nostra metamorfosi, la nostra mutazione genetica.
Gestire un teatro pubblico (l’ITC Teatro è il teatro Comunale della città di San Lazzaro di Savena) non voleva per noi dire solo aver trovato casa ma contrarre un patto con la città, un prendersi un impegno di fronte a una comunità: far diventare quel luogo un luogo per tutti. Per gli abituée e per chi non c’era mai stato, per adulti e bambini, per italiani e stranieri. E così, la rincorsa a creare lo spettacolo più bello del mondo, che non si è mai interrotta, si è via via arricchita di altre necessità: prendersi cura degli spettatori, ad esempio, costruendo insieme a loro nuove pratiche e nuovi modi di stare insieme. Ma anche creare occasioni d’incontro con i cittadini, cioè con quell'80% che le rilevazioni ISTAT ci dicono non avere mai messo piede in un teatro. Capire il perché di questa assenza e cercare di porvi rimedio. Infine mettere le nostre competenze a disposizione di insegnanti, educatori, medici per scoprire che il teatro può essere uno strumento potente al servizio di molte fragilità. Produzioni, gestione di un teatro pubblico, progetti internazionali e per la città e azioni di welfare. Ecco le quattro linee su cui oggi ci identifichiamo. Tutto questo abbiamo cercato di portarlo avanti contemporaneamente, in maniera organica, arricchendo ogni percorso delle suggestioni e delle scoperte degli altri, senza progetti di serie A e di serie B. Abbiamo immaginato un teatro totale, olistico, che si prendesse cura delle persone in quanti più modi possibile: facendo vedere loro del buon teatro, ma anche facendoglielo fare, seriamente ma per gioco, cercando di dare strumenti per comprendere meglio loro stesse e il mondo in cui viviamo, tendendo una mano a chi ne avesse bisogno là dove ne fossimo capaci. Dopotutto il teatro, come linguaggio, non può accontentarsi di parlare solamente ad un pubblico di adepti, di iniziati, di critici e di addetti ai lavori. E il teatro inteso come edificio non può limitarsi ad essere solo la casa degli artisti o degli spettatori per poche ore alla settimana.E così alla fine, scoprendoci decatleti più che centometristi, ci siamo sentiti appagati e felici,
trovando anche il tempo per fare spettacoli migliori. Già perché, al contrario di quanto si possa pensare, scendere dal palco e uscire in città non ha tolto tempo alla ricerca e alle prove, ma ha generato nuova linfa e donato un nuovo, rinnovato senso alla nostra produzione artistica.

MD. Una delle ragioni della crescita è stata, a mio avviso la qualità delle vostre produzioni. Quale idea di teatro e di drammaturgia, una drammaturgia che mi sembra molto attenta alla parola e alla scrittura, ha guidato te, Nicola Bonazzi e Micaela Casalboni, e vi guida?

In compagnia siamo da sempre tanti e tante sono le teste pensanti. Ecco che le linee di ricerca talvolta si sono moltiplicate, altre volte si sono fuse. Siamo partiti con tre registi (io, Nicola Bonazzi e Pietro Floridia) a cui si sono aggiunti Mario Perrotta prima e Vincenzo Picone poi. Abbiamo sempre lavorato l’uno al servizio dell’altro, diventando all’occorrenza gregari o leader. Credo che questo sia stato uno dei nostri punti di forza.
Abbiamo sempre immaginato spettacoli che avessero una forte attinenza con i temi dell’oggi, attingendo se necessario dalle piccole storie della grande storia, costruendo spesso i nostri spettacoli a bordo palco, con una forte interazione con gli attori e scrivendo sempre avendo in testa le facce, i corpi di chi sarebbe andato in scena. Qui il talento e l’esperienza di Micaela sono sempre decisivi ma il vero drammaturgo tra noi è Nicola, a cui prima o poi tutti facciamo leggere quello che abbiamo scritto...
Negli anni abbiamo realizzato spettacoli per un solo attore, altre volte per tutta la compagnia.
Abbiamo immaginato drammaturgie site specific e costruito copioni senza parole, creato spettacoli per il teatro ragazzi, di narrazione, spettacoli interattivi ed eventi con non professionisti. Diciamo che prima viene il progetto con i suoi obiettivi, poi la forma teatrale che più si presta al loro raggiungimento, infine la drammaturgia con la sua capacità di reinventare modelli e costruire mondi. Insomma siamo quelli di Italiani Cìncali e di Futuri Maestri e la cosa, almeno al nostro interno, non crea crisi d’identità.

MD. Un secondo motivo di successo, a mio avviso, va ricercato nelle scelte di ospitalità che avete fatto nel tempo. Mi sembrano scelte molto attente alla nuova drammaturgia, non necessariamente di ricerca, anche di compagnie interessanti ma che spesso erano poco visibili ai grandi circuiti e talora alla critica stessa. In che rapporto vi ponete, oggi, con queste realtà?

Costruire comunità attraverso il teatro vuol dire in primis far accadere cose belle sul palcoscenico.
Dobbiamo stare con gli occhi ben aperti e in una città dove passano già tante cose belle dobbiamo essere bravi ad accorgerci degli spettacoli interessanti prima degli altri!
Il confronto con il meglio che viene prodotto in Italia e all’estero ogni anno è un passo fondamentale. Frequentiamo naturalmente i festival italiani ed europei alla ricerca delle cose giuste per il nostro palco e cerchiamo di avere un rapporto diretto con quegli artisti che negli anni abbiamo sentito vicini. Siamo soci di Scenario e di In-Box, due delle vetrine più complete per vedere le nuove generazioni all’opera. E cerchiamo anche di guardare la miriade di video che ci arrivano quotidianamente. Non è facile perché, come sa chiunque abbia un teatro, sono veramente molti. Ma ci proviamo.
Ci guida sempre l’idea di costruire delle stagioni che ci diano la possibilità di aprire un confronto diretto con il pubblico, offrendo loro la possibilità di vivere lo spettacolo non solo mentre si consuma ma anche prima e dopo: ad esempio da ormai qualche anno facciamo precedere gli spettacoli della stagione da un aperitivo dove Massimo Marino, storico critico del Corriere e di altre testate, introduce il lavoro della sera mentre chi vuole sorseggia un buon bianco smangiucchiando qualcosa. E dopo lo spettacolo l’immancabile incontro con la compagnia, dove il pubblico in sala in questi anni ha dato prova, con domande sempre più attente e pertinenti, di “crescere” insieme a noi. Il nostro pubblico! Fieri di loro!

MD. A me sembra che anche voi avete colto con acutezza l’esigenza di costruire, ri-costruire un rapporto profondo con le comunità di riferimento, una esigenza che è propria della parte della migliore nuova drammaturgia nazionale. Come avete sviluppato e come vivete oggi questo rapporto con la “polis” e con le sue istituzioni?

È la sfida centrale di questi nostri tempi, una sfida che dovrebbe riguardare tutti. Marco Martinelli parla di “farsi luogo”. Noi l’abbiamo preso alla lettera già da vent’anni!!!
A parte gli scherzi, la maggior parte della gente percepisce ancora oggi il teatro come un passatempo elitario, costoso e quasi sempre noioso. Questa è la prima barriera, il primo stereotipo che abbiamo cercato di ribaltare. Lo abbiamo fatto cercando di rivolgerci a tutta la città, uscendo dal teatro e presentandoci nei mercati, nelle scuole, nei parchi, nelle biblioteche, parlando con tutti e ascoltando tutti il più possibile. Mettendo noi e l'ITC a disposizione di chiunque avesse bisogno di uno spazio, spesso gratuitamente: ti manca la sala per l'assemblea di condominio? Vieni da noi.
Devi provare la relazione che farai all'assemblea degli azionisti domani? Ti diamo una mano.
Vorresti ascoltare un concerto di musica araba? Lo organizziamo insieme. E così, accanto alle nostraproposta di direzione artistica più ortodossa, ci siamo confrontati con i bisogni della nostra comunità e abbiamo provato ad assecondarne i bisogni. E piano piano, nella testa di qualcuno, l’idea di teatro come arte esclusiva si è trasformata nell’idea di teatro come luogo accogliente dove stare bene e prendersi cura di se stessi.
Un teatro per la cura della persona, come dice Vacis.
Un teatro di promozione umana, come piace dire a noi.
La strada è ancora lunga e non basta certo solo organizzare aperitivi ma i 30.000 spettatori all’anno che vengono a vedere gli spettacoli che mettiamo in cartellone sono frutto anche di questo slittamento percettivo, di questo spostamento linguistico. Vengono in un luogo dove si sentono a proprio agio. E magari tornano. Anche se l’edificio, di per sé, non è certo la Cartoucherie...
Una seconda azione è stata far fare teatro a tutti. Sempre e da sempre. Bambini e adulti, italiani e stranieri, alti e bassi, belli e brutti. La media annuale si attesta ormai da tempo su circa 250 laboratori che coinvolgono 5000 allievi dai 3 ai 90 anni che ogni settimana giocano per due ore a fare teatro con noi.
È l’apertura di una linea di dialogo fondamentale con una base molto ampia di nuovi potenziali appassionati. Nuovi perché spesso, per non dire quasi sempre, quelli che vogliono giocare a fare gli attori per due ore alla settimana, non ci sono mai entrati in un teatro.
Molti nel nostro ambiente sono comprensibilmente preoccupati del proliferare di questi aspiranti attori da dopolavoro. Un divertimento mordi e fuggi, superficiale, ben lontano dal mistero dionisiaco del teatro vero. Ma siamo sicuri che il Teatro con la T maiuscola, quello che squassa, che ammalia, che intriga, che ribalta e rivela sia solo una questione tra palco e platea? Tra attore officiante e spettatore adepto? O quel mistero, quella malia, quella forza può essere creata, scoperta,
rivelata anche da un bravo insegnante a massaie, avvocati e studenti in un laboratorio di una volta a settimana? L’importante è essere chiari: sono corsi per diventare appassionati, non professionisti. E una volta che sono entrati in sagrestia, sta a noi a portarli in chiesa.
Ci piace pensare che in questo modo si possa fare del bene al teatro. Così e in cento altri modi, tutti da scoprire, da creare, da aggiungere, non certo da sostituire, alle tradizionali pratiche. Credo che ce ne sia bisogno, prima che sia troppo tardi, prima di accorgerci che in platea ci siamo solo noi.
E allora ben vengano anche i teatri aperti per feste e degustazioni di vini, col wi-fi gratuito e dispensatori di servizi e occasioni di benessere e socialità per tutti, anche per chi non penserebbe mai di comprare un biglietto per uno spettacolo.
Terzo passaggio cruciale è creare rete con le istituzioni del territorio. Che non vuole solo dire mettere i loghi nei manifesti ma aprire un dialogo con tutta la città, tracciando nuove linee di confronto con gli altri teatri, con le scuole, le università, le istituzioni e i centri che, a diverso titoloe a livello tanto locale che internazionale, si occupano di educazione, di sociale, di cultura e di intercultura, e con questi tracciare metodi, pratiche, strumenti per una nuova idea di formazione, educazione, crescita, ricerca, welfare. Inutile dire che se si vogliono costruire progetti culturali efficaci e sostenibili è fondamentale lavorare in totale sintonia con l’amministrazione. E noi, qui, siamo molto fortunati. Non solo perché ci sostiene, ci sprona e ci aiuta, ma anche perché ci chiede, ci stimola, ci coinvolge.
Altro punto. Studiare, rimanere aggiornati, scoprire buone pratiche e condividere risultati e scoperte. C’è bisogno di confronto e in Italia e in Europa sono molte le occasioni di scambio e approfondimento. Siamo spesso in giro per il mondo a studiare come si fa e ogni tanto ci invitano a raccontare come facciamo noi. Sono momenti preziosissimi.
Essere luoghi attrattivi, coinvolgere attivamente i cittadini, fare rete e scoprire sempre nuovi metodi e nuove pratiche. Ecco il nostro segreto. Che poi segreto non è perché, per fortuna, tutto questo lo fanno da tempo anche altri. Come notavi tu, da almeno 10 anni una nuova generazione di teatranti, per lo più quarantenni, da nord a sud, è quotidianamente intenta a rimboccarsi le maniche e a immaginare nuovi modelli e nuove modalità. Una generazione di artisti flessibili, creativi, attenti alla responsabilità sociale e alle fragilità, con uno sguardo all’Europa e uno ai propri territori, pronti a difendere e a promuovere un’idea di cultura diffusa, alla portata di tutti che possa essere reale strumento di benessere per tutti i cittadini.
Ultima considerazione, che è ovviamente la più importante: la qualità artistica. Ricordarsi sempre che l'obiettivo ultimo di tutto questo lungo e articolato processo deve essere la creazione di bellezza e di senso. Dobbiamo essere un'impresa, certo, ma di artisti. Guai a dimenticarlo.

MD. “Futuri Maestri”, la vostra ultima produzione, è uno dei frutti più maturi della vostra crescita e della crescita delle relazioni con la vostra e altre comunità, ma altrettanto bella fu l’esperienza di “Le parole e la città”. Secondo te sono esperienze “esportabili”, cioè ripetibili altrove o troppo legate ai luoghi ove sono state concepite?

Futuri Maestri , per come lo hanno visto gli spettatori all’Arena del Sole, non credo sia riproducibile. Per una questione di costi e di opportunità. Ma è esportabile la modalità di lavoro. In questi progetti cerchiamo di mettere in scena la città dando alla città gli strumenti per rappresentarsi. Lo abbiamo fatto nelle periferie di Tunisi, con gli adolescenti pronti a imbarcarsi clandestinamente per l’Italia; a Bergamo, mettendo in scena il mondo del terzo settore; in Bolivia, nel carcere minorile Fortaleza di Santa Cruz, e a L’Aquila, con 50 bambini che tornavano per laprima volta in zona rossa a 6 anni dal terremoto.
Quindi, dopotutto, ci basta una città.

MD. Per concludere, dopo “Futuri Maestri”, quali sono i vostri prossimi progetti artistici?

Torniamo a dimensioni da camera, da tournée. Il prossimo lavoro sarà frutto di una collaborazione con gli amici del Teatro delle Temperie, un’altra compagnia capace di farsi luogo. Si intitolerà Casa del Popolo. Non perché vi si racconti nostalgicamente la storia delle Case del popolo, che ormai non esistono quasi più e che la nostra generazione non ha praticamente mai vissuto. Ma in un’epoca nella quale tutti si appellano al “popolo”, si accusano di populismo e rifuggono dal nazional-popolare, ci sembrava importante chiederci dove sia finito quello spirito solidale, quel comune sentire, in quale recondito angolo delle nostre viscere, in quale meandro delle nostre città si è andato a nascondere il desiderio di fare insieme. Perché sentire il bisogno di costruire un luogo inclusivo, aperto, capace di creare valore dall’ascolto e dall’azione comune non è certo un’utopia
che abbiamo inventato noi. Idee capaci di farsi luogo, spazi capaci di farsi casa. Come il teatro che ci piace.