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Desidero sottoporre all’attenzione dei lettori, sperando di interessarli vivamente, alcune considerazioni su un’opera di Raffaele Viviani, Fatto di cronaca: essa mi pare assolutamente esemplare, in ordine a quanto si propone la mia rubrica, e quindi utile a chi vuol “leggere”, per poi scriverne teatralmente, la realtà del mondo della vita. Scritti nel 1922, prendendo origine dall’atto unico 1918 For’ ‘a loggia, i tre atti di Fatto di cronaca costituiscono una molto significativa tappa del percorso di scrittura vivianesco e della sua spettacolarità d’attore.
Nell’edizione Guida, più aggiornata, è ripristinata una prima versione con la chiusura del dramma che vede Scemulillo arrestato per falsa testimonianza, avendo ammesso, spronato dai genitori che non sopportano più la situazione creatasi, di avere accusato infondatamente Arturo della morte della moglie Clara.
Tale incertezza compositiva dimostra che, come in molti altri suoi testi, Viviani è lontano dalla esposizione della “cronaca di un fatto”, giacché la sua è una complessa e altamente drammatica attenzione ai conflitti, al tessuto umano e sociale in cui essi trovano spazio ed esplodono, alle conseguenze finali destinanti una vita, a cui portano  i protagonisti del “fatto”, primo fra tutti il personaggio-perno dell’intreccio, Scemulillo. Finta pazzia, o meno, piccole furbizie, paure (specie quella di finire in galera) e terrori abitano la personalità debole del ragazzo (colpito, come tanti a inizio Novecento dalla meningite); il quale, incalzato dall’inchiesta giudiziaria come unico testimone, insisterà ad affermare di continuo “io nun ne saccio niente”. Viviani porta a commentare il “fatto” un coro di personaggi fondamentalmente estraneo, privo di coinvolgimenti emotivi,  in modo tale da far immedesimare in esso lo stesso pubblico, osservatore, ma direi, assieme, osservato, dei\dai protagonisti della tragedia: i familiari di Clara e quelli, in primis la madre di Scemulillo. E ancora una volta nella visione e rielaborazione teatrale vivianesche, si mischiano clima di festa e fatti funesti, compresenza di un coro epicizzante e di singoli personaggi impaniati nelle loro tragiche e grottesche vicende, il comico di parola (come sempre con un doppio fondo di commenti al vetriolo su personaggi ed azioni) e il registro lirico-musicale. Con il solito, pregevole risultato di creare un contrappunto armonico e precisissimo nel quale è impossibile separare il riso dal pianto. La festa sul terrazzo interrotta dal rientro improvviso del marito di Clara, marinaio, con quei palloncini luminosi "giapponesi" e l' orchestrina che suona piccole danze festose, la luce che incupisce e gli intrecci che via via si dipanano degli effetti degli egoismi e delle maldicenze, è da questo punto di vista particolarmente ben riuscita; mentre il secondo atto, con l' attesa dell' interrogatorio e il procedere contagioso della paura è un piccolo gioiello di drammaturgia psicologica.
Ora, per concludere, non mi pare importante che il “fatto di cronaca” sia veramente accaduto ad inizio anni Venti a Napoli, e che ad esso si sia ispirato il grande uomo di teatro, (comunque negli studi filologici e critici su Viviani, fra cui quelli della sua maggior studiosa Anna Lezza, non vi è conferma in tal senso), conta, piuttosto, “rubare” a un nostro Maestro i modi e le forme drammaturgico-teatrali per “trattare” un episodio metropolitano di violenza, di “cuorna”, di tradimenti d’amore, di grovigli familiari velenosi, che oramai la “cronaca” d’oggi ci presenta quasi ogni giorno.