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Attore, regista, pedagogo generoso e seguitissimo, Mauro Avogadro ha lavorato per anni accanto a Luca Ronconi, condividendo e testimoniando i capisaldi di quel  teatro di parola che si definiva man mano nel laboratorio di  Prato fino a diventare la sua cifra distintiva.  Forse non lo sanno gli ostinati amanti della parola ben detta, ma gli devono molto.  Il suo capillare lavoro di resistenza, il suo sano proselitismo con i giovani allievi, dalla scuola del Teatro Stabile di Torino a quella dell’Inda di Siracusa fino al Piccolo di Milano, senza tralasciare i laboratori monografici che molti ex allievi gli affidano qua e là in giro per l’Italia,  fanno di Avogadro un benefico untore, portatore di un seme che quando attecchisce ci fa ben sperare. “Anche se io gli allievi li tratto da attori”. Chi vuole vedere come ‘tratta’ gli attori, vada a vedere come se la cavano Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice in Copenaghen, lo spettacolo dal testo di Michael Frayn di cui Avogadro è regista,

ripreso a diciott’anni di distanza dal suo primo debutto e con uguale successo.

1) Mauro, a parte le battute che vengono facili, che ci dici di Copenaghen, questo spettacolo difficile e meraviglioso, che ha conquistato il pubblico più disparato,  oggi come allora?

E’ una storia di amore e passione per la scienza. L’incontro scontro tra due scienziati -Niels Bohr (Orsini) e Werner Karl Heisenberg (Popolizio)- che parlano di meccanica quantistica, principio di indeterminazione, struttura atomica, al cospetto della moglie del primo, Margrete.  
Uno spettacolo nato quasi per gioco da un un’idea di Orsini, sorta di vuoto a perdere che è diventato un cult.

2) Come si fa a parlare di scienza sul palcoscenico di un teatro di prosa e a fare così presa sul pubblico? (Lo spettacolo, dal 24 ottobre al 12 novembre al teatro Argentina di Roma, dove sta registrando il tutto esaurito, sarà in tournée in tutta Italia fino a maggio e toccherà nuovamente città come Milano, Napoli, Genova).

“Copenaghen è il risultato di alchimie non previste ma non sarebbe stato possibile senza questi attori. Questo, innanzitutto. Ma penso anche un’altra cosa. Vent’anni fa quando abbiamo scommesso senza troppo investimento, di spettacoli di questa portata ce n’erano tanti. Il pubblico era più ‘esercitato’ ma aveva più scelta. E il successo di conseguenza non era così scontato. Oggi invece temo che sia anche il sintomo di qualcosa che non va nel nostro teatro. Se uno spettacolo alla sua terza ripresa (di dieci anni fa la seconda ndr) ha ancora questa tenuta, mi sorge qualche sospetto sulla qualità del teatro di oggi.

3) E così entriamo in media res: il teatro di parola. Qual è oggi il destino del teatro di parola?  Il pubblico ne ha nostalgia?

Il pubblico è contento di vedere un teatro recitato, anzi ben recitato. Io insegno agli allievi e persuado i miei ex allievi a insistere, a tirare dritto su questa strada e le persone che parlano non le puoi cambiare, ci saranno sempre. Quello che è cambiato, purtroppo, è che non c’è più una distinzione di generi codificata per cui è difficile scegliere. Oggi si assiste alla proposta di un titolo, magari un classico della letteratura teatrale e può succedere che ti propinino tutta un’altra cosa. Ai miei tempi il teatro di sperimentazione che stava nascendo si faceva in spazi dedicati, ora invece c’è la tendenza a mischiare le carte anche se la si chiama contaminazione di stili. Ma il miscuglio di ufficialità e non ufficialità genera confusione anche nello spettatore perché la non ufficialità, che dovrebbe di per sé andare contro corrente,  viene invece programmata in quei teatri a cui spetterebbe di tutelare la tradizione.

4) Già, la tradizione. Cos’è successo in questi anni che ci ha portato fin qui?

L’Italia è un  paese dove il teatro di prosa non  ha una vera e autentica tradizione ma vive di alti e bassi, di effetti speciali, di luci puntate sul grande attore, il grande regista, l’evento di richiamo. Mancano codici di riferimento precisi in grado di funzionare come parametri, che invece sono molto chiari nella lirica e nella danza. E certo velleitarismo ne è la conseguenza. Io, da regista, credo che non sia giusto né possibile rivisitare tutto e che certi allestimenti epocali, pensiamo per esempio al Giardino dei ciliegi di Visconti e di Strehler, debbano valere come termini di confronto per chiunque intenda mettere in scena quel testo oggi. Per andare oltre bisogna conoscere molto bene quel che ci precede, non ignorarlo. Chi fa cinema, per esempio, sa molto bene che la commedia oggi non può non fare i conti con Monicelli. In teatro invece è tutto più approssimativo.

5) Qual è, se c’è, il confine tra interpretazione e licenza?

Bisognerebbe analizzare caso per caso, ma in generale credo che un errore di fondo sia intervenire massicciamente sul testo. Se esiste una drammaturgia costruita per esempio in quattro atti, che sta dentro la tradizione, è possibile fare varianti interpretative ma non decidere di stravolgere il testo. Quello che bisognerebbe fare è sforzarsi di capire le potenzialità che il testo ti offre, non usare quel testo per raccontare un’altra cosa.

6) E’ la differenza tra interpretazione e strumentalizzazione. Mi puoi fare un esempio legato al tuo lavoro?

Circa vent’anni fa ho messo in scena I ciechi di Maurice Maeterlinck con una compagnia di giovani attori, diplomati da poco. Si tratta di un dramma costruito intorno a dodici vecchi ciechi che hanno perso la trebisonda perché sono andati a fare una gita con il prete che è morto  senza che loro se ne accorgessero, però poi, rimasti senza guida, cominciano ad avere una paura maledetta del loro futuro.  
Ecco, noi siamo partiti proprio da questa paura, ma senza cambiare una parola. Dodici personaggi erano indicati nel testo e dodici personaggi sono rimasti nello spettcolo. Le uniche varianti, minime, erano dirette a liberare il testo da quel gusto gotico di fine Ottocento che prevedeva didascalie come per esempio ‘alberi caduchi’.
Secondo me la cecità di cui parla Maeterlinck è una cecità simbolica e io volevo raccontare il vuoto di senso di una generazione. Abbiamo pensato a una scena dominata da dodici letti, quelli dei collegi, in cui ognuno viveva l’impossibilità di raggiungere il letto dell’altro. Nel luogo dove si nasce, si dorme, si muore, si fa l’amore, ognuno era solo nel suo piccolo letto e l’effetto era una solitudine assoluta. Ma raccontata con le stesse parole usate dai ciechi in gita col prete.
Il lavoro consiste nel piegare il linguaggio a qualcosa di più vicino a noi ma senza cambiare una virgola. Sennò è meglio scrivere un testo ex novo.

7) Però ammetterai che certi testi appaiono ostici, per lessico e costruzione. Penso ad Alfieri, per esempio.

Il fatto che un certo uso della lingua ci risulti datato non significa che non possa essere piegato alla comunicazione di oggi. Io ho una fissa: di Alfieri vorrei fare Saul che secondo me è la storia di un vecchio disturbato, esaurito, e potrebbe essere reso in modo molto commuovente. Chiaramente, c’è bisogno di attori che sappiano pilotare quei versi, dare concretezza a quei versi.

8) Una considerazione simile te l’avevo sentita fare a proposito di Pirandello. Come si esce dalla retorica del pirandellismo?

La retorica secondo me dipende da un fatto: l’intercalare per Pirandello è un modo per rendere drammaturgia idee e scritti che arrivano dalla letteratura perché lui fondamentalmente è un romanziere diventato drammaturgo e non il contrario e quindi nel teatro si avverte proprio lo sforzo di dare credibilità aggiungendo dei ‘sì’, dei ‘ma’,  forse pleonastici ma usati per rendere meglio il  linguaggio parlato. Vero è che il suo è un italiano bellissimo e nel momento in cui una frase è articolata in un italiano bellissimo, se le dai concretezza non è affatto detto che risulti ostica, anzi.

9) E veniamo alla concretezza. Come rendere una battuta ‘concreta’ senza scadere nel chiacchiericcio?

Eh già. Oggi purtroppo circola l’idea che il linguaggio parlato sia chiacchierare. Ma partiamo da un presupposto. Da una drammaturgia scritta in modo tale che il suo codice vada man mano scoperto da chi si appresta a interpretarlo. E’ impossibile che un attore reciti un ruolo senza avere prima decodificato completamente lo scritto, prima di avere compreso le dinamiche tra i personaggi.
Affrontare le battute del proprio personaggio significa affrontare una parte del testo che è messa in relazione con  tutte le altre, e cercare insieme al regista, se esiste, il modo in cui l’autore ha deciso di utilizzare quelle frasi e quelle parole. Le quali, se si vuole riprodurre il parlato, sono il risultato di quello che noi umani cerchiamo di esprimere e comunicare e non di ciò che a tutti i costi vogliamo esprimere e comunicare.

10) Spiegami meglio.

Per riprodurre la naturalezza e la concretezza del parlato è necessario riprodurre la necessità di esprimersi, con tutte le difficoltà del caso. Perché noi, quando parliamo, stiamo innanzitutto cercando di esprimerci. Con mille difficoltà e mille interferenze. Ora è chiaro che ogni personaggio avrà le sue caratteristiche proprie e le avrà man mano che è posto dall’autore di fronte a un altro personaggio. Questa è la grande costruzione che si deve decodificare. Invece oggi si tende a fare il processo inverso pensando che le parole siano sufficienti a loro stesse e che quindi basti dirle.

11) Imparare a pilotare la lingua per non andare dietro la scia delle parole: una raccomandazione che ti ho sentito più volte rinnovare.

Infatti. La credibilità di un personaggio viene fuori dalle varianti, sfumature, allusioni che possono avere le sue parole in rapporto a se stesso e in rapporto agli altri personaggi. E il divertimento dello spettatore è capire cosa sta succedendo in quel determinato momento a quei determinati personaggi e non come va la storia, che, casomai, è una conseguenza.
E’ la differenza tra il teatro e la soap: nella soap importa cosa accade al racconto, nel teatro accade esattamente il contrario.

12) Intendi questo quando dici all’attore: fingi di non sapere come va a finire?

Sì ma non solo perché questo suggerimento riguarda anche la struttura della frase. Spesso infatti, possedendo la struttura della frase, succede che ci si affidi ad essa, tirando a indovinare come andrà a finire. Una cosa noiosissima per lo spettatore perché noi non parliamo mai sapendo dove andremo a finire, in che modo andremo a concludere.
Per lo stesso motivo trovo che non sia giusto parlare di ‘intenzione’. Dire che un personaggio ha un’intenzione infatti significa che si esprime in modo intenzionale. Ma non è così. Uno prova a parlare, prova a esprimersi, fa dei tentativi.

13) E quindi?  

Quindi per riprodurre il modo in cui noi pensiamo, parliamo, ci rapportiamo con gli altri, bisogna mettere in atto questo artificio, che è quello che paradossalmente rende la naturalezza e permette di cogliere i significati sottesi. Nella nostra lingua uno scarto di accento tra un verbo, un aggettivo, una preposizione, può spostare il significato di una frase, sia rispetto al significato stesso, sia rispetto al significato che acquista nel momento in cui un personaggio la dice.

14) Hai spesso parlato di capacità evocativa della parola: cosa intendi esattamente?

In teatro la capacità evocativa della parola è totale. Ti posso fare una serie di esempi che servono a capire come andare a cercare una specie di password che l’autore ci dà per avvicinarci alla giusta interpretazione.
Prendiamo Ibsen e in particolare Casa di bambola. La prima parola che Nora pronuncia quando rincasa con i bambini, rivolta alla cameriera, è ‘nascondi’. “Nascondi l’albero di Natale”. Ibsen fa cominciare il suo dramma con il verbo ‘nascondere’. E Casa di bambola infatti è un dramma sulla menzogna, sulla rimozione di fatti precedenti che ricadono sul presente. La chiave è contenuta nella parola iniziale e ci dice che siamo di fronte a un dramma su azioni nascoste.  Sono avvisaglie rivolte soprattutto all’attore, che l’autore dà per suggerire dove si sta andando a parare. Ed è importante che lo spettatore arrivi a domandarsi che cosa c’è sotto. Il teatro è interessante in quanto thriller di anime, non se assomiglia alla fiction.

15) Ma spesso proprio Ibsen e il dramma borghese vengono affrontati alla stregua di una fiction.

Io quando sento dire che Ibsen è come una fiction mi imbestialisco. Ibsen riproduce in un contesto borghese gli archetipi tragici classici. Le sue eroine sono delle Elettre, delle Fedre, delle Clitemnestre e il linguaggio è quello borghese semplicemente perché a fine Ottocento il teatro era quello della borghesia.  

16) In Ibsen è fondamentale il rapporto con il tempo.

Una delle sue dominanti è proprio quella del passato che ritorna, delle colpe dei padri che ricadono sui figli, esattamente come nella tragedia greca. E il gusto per noi è  quello di capire quale svolgimento avranno le vicende dei personaggi e come loro reagiranno nel momento in cui questo passato si ripresenta.   

17) A parte la portata evocativa della parola chiave, l’hai chiamata password, cosa pensi della parola come suono, della vocalità al di là della sua valenza semantica?

Se parliamo di un attore che affronta una determinata parte, il tipo di voce da usare è consequenziale all’analisi che si è fatta del testo. Ma non è automatico: richiede un lavoro, un’analisi delle battute, uno studio e una comprensione della condizione del personaggio.  Io parlo spesso di modo di guardare, camminare, respirare, e quindi anche di parlare.

18) Come far ridere senza farsi ridere dietro. Il titolo di un tuo laboratorio sulla comicità.

Cominciamo col dire che anche se la nostra comicità nasce da Aristofane e Plauto, la nascita del cinema ha fatto sì che i riferimenti classici, gli archetipi di comicità greca e romana poi passati alla commedia dell’arte, non fanno più ridere nessuno. Invece ridiamo di fronte a chi rimanda, per esempio, all’italiano medio di Alberto Sordi. Mettici dentro Buster Keaton, Charlie Chaplin, mettici pure Stanlio e Ollio, ma la nostra cultura ormai è questa qui. E la commedia all’italiana, in particolare, ci appartiene perché è specchio di quel che vediamo fuori oggi.

19) Però c’è il rischio macchietta. Qual è il suggerimento che dai per non cadere nella macchietta senza tuttavia riprodurre un archetipo?

Recitare come se facessi Ibsen. Lo scarto è linguistico, interpretativo, ma è minimo. Bisogna semplicemente saperlo fare.

20) E’ di poche stagioni fa la tua regia delle Vespe di Aristofane per il Teatro Greco di Siracusa. Come vanno affrontati oggi i commediografi classici? Sei favorevole all’attualizzazione?

Quelle sono commedie che parlano del contesto sociale e politico dell’Atene del V secolo a.C. L’attualizzazione è possibile e anche auspicabile ma solo alludendo a un contesto, non attraverso citazioni dirette, esplicite, che farebbero subito ‘Bagaglino’. Aggiungere didascalie, nominare espressamente politici odierni, usare segni che  rimandano direttamente al nostro tempo, lo trovo sbagliato e penso  anche che il pubblico si senta preso per cretino.

21) Veniamo al tuo maestro Luca Ronconi. Cosa ricordi di quel kolossal che fu Gli ultimi giorni dell’umanità, il testo di Karl Kraus messo in scena al Lingotto di Torino?

Luca aveva la convinzione che tutto potesse diventare teatro e che ogni testo particolarmente complesso avesse un luogo ideale per essere rappresentato. Si pensi per esempio che Baccanti con Marisa Fabbri e le scene di Gae Aulenti, che avrebbe potuto avere una sicura tournée europea, non è uscito dall’Istituto Magnolfi di  Prato perché non era possibile riprodurre quegli stessi spazi altrove.
E’ chiaro che  le navate del Lingotto erano l’ideale per il suo immaginario immenso. Lo si sentiva dire ‘sposta quella locomotiva’ come io potrei dire ‘porta quella sedia in quinta’. Il suo divertimento era sondare tutto il potenziale di comunicazione che il teatro poteva racchiudere.

22) A voi attori cosa diceva?

Di essere come i gladiatori al Colosseo. Di attirare l’attenzione dello spettatore. Voleva proprio che lo spettatore partecipasse a una contemporaneità. Il testo di Kraus è un testo sull’informazione, sulle variabili dell’informazione, e su come le informazioni si modifichino a furia di passare di mano, di giornale in giornale, condizionando la realtà sociale e politica. Grande lungimiranza nel ’90, se si pensa che oggi si fa diventare notizia anche ciò che notizia non è. Non solo. Ronconi voleva anche fare uno spettacolo sulla guerra ed è impressionante che quello stesso anno sia scoppiata la guerra del Golfo.

23) A quale spettacolo sei più legato?

Oh Madonna! Calderon di Pasolini, uno spettacolo del ’76 che risale ai tempi del laboratorio di Prato. Un testo sul desiderio di fuga dalla borghesia, che se riesci a raccontarlo, se riesci a raccontare proprio quel desiderio lì, diventa un testo attualissimo.  Ma in generale sono legato a tutti gli spettacoli di quel periodo perché si faceva laboratorio sul serio. C’era il piacere della ricerca, dell’elaborazione svincolata dal risultato e anche Luca si sentiva più libero.

24) Tra le tue regie invece quale ricordi con più soddisfazione?

La donna del mare di Ibsen con Elisabetta Pozzi. Uno spettacolo del 2005. E’ lì che ho trovato conferma quel che pensavo sul teatro e su Ibsen.