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Avvolge in un mondo di domande, intriga e frantuma le nostre certezze su aspetti quali “l’altrove” che ci aspetta dopo la morte, la reale consistenza del tempo, la fragilità del nostro essere, la potenza e la mancanza degli affetti e soprattutto la glaciale presenza accanto a noi della solitudine e dell’incomunicabilità che, purtroppo, accompagnano tutti i giorni il nostro cammino. Stiamo parlando dell’ultima produzione del Centro Teatrale Fabbricateatro di Catania, “Alla fine del tempo”, liberamente tratta da un racconto (“Il tempo stringe”) di Antonio Tabucchi,  in scena alla Sala Giuseppe Di Martino, drammaturgia e regia di Elio Gimbo. Si tratta di un coinvolgente, misterioso e profondo atto unico che, nella sua breve durata, circa 55’, regala emozioni a non finire, alterna leggerezza a drammaticità, apre voragini di interrogativi senza però mai perdere le speranza di una luce di verità, di conforto verso un obiettivo, verso un luogo dove verremo traghettati, accolti, da una mano, da un volto amico. Anche stavolta, caratteristica della compagnia Fabbricateatro guidata da regista catanese Elio Gimbo, il gruppo propone al suo pubblico uno “spettacolo-enigma", nato dopo dalla lettura da

parte di Gimbo di un articolo, pubblicato nel 2013, circa un esperimento di alcuni ricercatori universitari del Michigan comprovante la straordinaria attività cerebrale immediatamente seguente la morte cardiaca, ovvero il nostro cervello per 30 secondi produce un ultimo fuoco d'artificio. Da questa lettura e da una riflessione sull’aldilà il regista etneo ha immaginato, immediatamente dopo la morte, per ognuno di noi uno smarrimento simile a quello dei bambini e, in una luce accecante di una scena finalmente pura, l'avanzare di figure accoglienti che ci conducono per mano verso una nuova condizione.
Su una scena quasi asettica (che cambia colore - dal bianco al rosso, dal blu al viola- a seconda delle situazioni e dell’evolversi della vicenda) e che inquadra perfettamente la particolare storia, si muovono i tre personaggi di “Alla fine del tempo”: un misterioso uomo di bianco vestito, con un papavero rosso e che apre e chiude la vicenda, scandendone i passaggi con un sottofondo musicale dal vivo, con un cappello bianco, un sigaro ed un bicchiere in mano; il trafelato e confuso protagonista Enrico/Enrichetto che con una valigia rossa, viene dall’altra parte del mondo per incontrare il fratello lontano da anni e, trovatolo morto in una stanza d’ospedale, cerca di raccogliersi con lui per pochi istanti; una glaciale - con tanto di camice bianco –infermiera, intermediaria tra la vita e la morte e che rappresenta il tempo che stringe, che scorre veloce.
Essenziali e rievocativi gli oggetti scenici: un papavero rosso, una crostata, dei petali rossi, una valigia, una bara al centro della scena, un freddo tavolinetto ed una sedia, tutti elementi che chiudono il cerchio di una storia, di una visione reale o immaginata che coinvolge, ammalia, confonde e rassicura il pubblico in sala.
Quella di Fabbricateatro è una operazione complessa, ben congegnata, grazie alla puntuale regia di Elio Gimbo, supportato da Angela Tinè, alla essenziale scena - fatta di silenzi, dubbi, paure, rimorsi - di Bernardo Perrone, al significativo disegno luci di Elvio Amaniera, al tappeto sonoro e vocale, intenso e delicato, affidato alla maestria ed alla professionalità di Puccio Castrogiovanni nei panni dell’enigmatico deuteragonista, l’altra presenza, muta ed al tempo stesso assenza (fantasma e cadavere), oggetto del desiderio che, morendo, si è sottratto al confronto. Ed in lui, in quest’altro, Enrico, la coscienza monologante, proietta se stesso, racconta frammenti della sua personalità, della sua famiglia, del padre, della madre, narra le proprie debolezze, i segreti familiari, le paure, le aspettative disattese, anche attraverso una straordinaria poesia che, nel finale, fotografa in un magnifico ritratto la solitudine dell'uomo moderno.
Fanno parte dell’affiato cast Cosimo Coltraro che, nei panni del sofferto, agitato, impaurito Enrico, conferma le sue capacità di interprete a tutto tondo (nella gestualità e nella recitazione), allo stesso tempo maschera comica e tragica e la convincente Sabrina Tellico che da vita ad una infermiera severa, impaziente, glaciale nel suo ruolo e che scandisce il ritmo del tempo, accompagnando il protagonista verso l’ignoto.
Sulle sfumature, sui significati, sui movimenti costruiti per lo spettacolo, sul finale, preferiamo non svelare nulla: sarà lo spettatore a valutare il tutto, ribadiamo solo che il regista Elio Gimbo, lavorando sul testo originale (“Il tempo stringe”) di Antonio Tabucchi, si sofferma nella pièce sui contenuti di una mente ancora attiva dentro un corpo già morto, sul mistero sfuggente di un tempo troppo breve e rappresenta, immortala - in scena - le riflessioni, la voce, il richiamo degli affetti più cari del protagonista Enrico- alternandoli tra rabbia, malinconia e nostalgia-  prima di chiudersi nel silenzio della bara, nel rito del trapasso.
Una rappresentazione ed una recitazione a più livelli che riscuote la curiosità, il gradimento e gli applausi di un pubblico attento e coinvolto da tematiche di grande suggestione. Per ogni singolo spettatore ritornano quindi in mente le domande poste dal regista nel lavoro: “Cosa succede nella nostra coscienza dopo la morte? Ritroviamo noi stessi, rivediamo il nostro passato? Compiamo un ultimo e definitivo bilancio di chi siamo stati?”. Per il pubblico – che alla fine applaude convinto la pièce e la performance degli attori - una corposa sequenza di eterni interrogativi, mentre il regista attende una risposta sul mistero della vita che ci aspetta quando non saremo più su questa terra.

“Alla fine del tempo”,
Drammaturgia di Elio Gimbo
liberamente tratto da un racconto di Antonio Tabucchi
Regia di Elio Gimbo
Assistente alla regia Angela Tinè
Disegno luci di Elvio Amaniera
Scena di Bernardo Perrone
Costumi Fabbricateatro
Organizzazione di Daniele Scalia
Centro Teatrale Fabbricateatro - Stagione Sala Giuseppe Di Martino - Catania
25, 26, 29 e 30 Novembre - 2, 3, 5 e 6 Dicembre 2017

Foto di Lorenzo Arena