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“Vi faccio tre semplicissime domande di storia”. E scruta tra il pubblico in cerca di qualche anima compiacente, che invece incrocia le dita perché no la storia no pensa la figura sono pure ‘semplicissime’.  L’attacco è indisponente e Alessandro Albertin non fa simpatia. Ma dura solo cinque minuti. Perché dopo avere messo tre punti fermi –scoperta dell’America, sbarco di Normandia e bomba su Hiroshima- tutto trova un senso. “Ditemi ancora cosa è successo a Parigi il 13 novembre di due anni fa”. Due anni fa? E  qui nessuno, così a bruciapelo, ricorda la strage del Bataclan. Perché la memoria funziona così. La memoria chiede tempo al tempo per sedimentare e il quotidiano bombardamento di brutte notizie, trasmesse in diretta, crea rimozione e difesa. E poi ci sono altre notizie, o notizie altre, i capitoli belli che si scrivono in silenzio accanto alla storia, e che in silenzio restano finché qualcuno non sceglie di leggerli forte, di farli sentire, di fare sapere che anche nell’orrore si può

nascondere una via di salvezza.
Ma anche qui bisogna aspettare.
La storia di Giorgio Perlasca è una storia così. Ha atteso quasi quarant’anni per venire alla luce e se ce l’ha fatta è perché è arrivata dal basso. Sono state le donne ebree ungheresi che lui aveva salvato, insieme a migliaia di ebrei del ghetto di Budapest, a divulgare la storia che oggi conosciamo. Era il 1987  e loro, ormai residenti in Israele, vollero rintracciare l’uomo giusto che le aveva strappate ai treni della deportazione.
Poi sono arrivati i riconoscimenti, le medaglie, l’attenzione da parte dei media e delle istituzioni, compresa l’approvazione di un vitalizio che lui rifiutò, così, per ricordare anche questo.
Ora noi sappiamo di Giorgio Perlasca. Un fascista che si oppose alle leggi razziali, un uomo pensante, fattivo, libero di una libertà senza bandiera, che lo ha reso ‘non appartenente’ e  quindi senza protezione. Scomodo per alcuni, pericoloso per altri,  inviso a chi non ha potuto cavalcarne la gloria.
Oggi si direbbe non omologato, svincolato da consorterie e soggezioni, a servizio solo della propria coscienza, ma forse nemmeno perché tutt’uno con essa.
Ecco, è alla storia di questa coscienza che dà vita Alessandro Albertin in un monologo di  un’ora e venti diretto da Michela Ottolini con il disegno luci di Emanuele Lepore.   
Alle battaglie della buona coscienza che dà retta a se stessa perché non sa fare altrimenti, contro ogni paura, ogni ricatto, oltre gli immensi ostacoli che si frappongono tra lei e la storia, tra le  ragioni dell’anima del cervello e del cuore e l’incolumità del suo corpo.  
Questo, credo, debba fare il teatro. Raccontare l’anima oltre la storia, la Seele oltre il Geist,  e poi inoltrarsi nella relazione tra anime con empatia. Albertin offre nel merito una prova commuovente.  Con due cubi neri che servono a evocare spazi e prossemica, alternando narrazione in terza persona e rappresentazione di tutti i personaggi chiamati in causa, racconta,  rivive e ci aiuta a rivivere.
Entra con garbo nelle vite degli altri infondendo in ognuno un afflato, un pensiero e poi se ne va ma non li abbandona perché ormai anche noi li abbiamo di fronte. Il palcoscenico spoglio prende ad animarsi dei suoi interlocutori mentre lui con una repentina virata di registro, di colore, di tono, di volume della voce, cambia ruolo o punto di vista.  
E la storia si dispiega con partecipazione crescente, anche del pubblico, che senza  rendersi conto entra a far parte di una costruzione che lo interpella trasversalmente.  Perché questo racconto animato si chiarisce anche parlando di facebook, di consenso tributato sulla piazza virtuale, di sconfitte e vittorie rese con la metafora della partita di calcio.
Due im-pertinenze che a saperlo prima sarebbe bastato per soprassedere –ma non gli bastava Perlasca, gli ebrei, i vagoni piombati- e invece funzionano, chiariscono, accompagnano lo spettatore tra la loro vita e la vita degli altri, ti fanno trattenere il respiro come quando manca un minuto al novantesimo, finché non ti resta che  rassegnarti. Hai perso. Ma la vita non è una partita di calcio. Allora vale anche barare e tentare l’inverosimile in un pugno di istanti. Nella partita della vita la  salvezza può dipendere dalla simulazione di un fallo.
E’ quello che ha fatto Perlasca al suo novantesimo. Da una parte il ministro degli interni ungherese Gàbor Vajna e l’ordine di sterminare i sessantamila ebrei del ghetto; dall’altra Jorge che con un (doppio) fallo al novantesimo ha paventato una ritorsione della Spagna contro i cittadini ungheresi lì residenti: tremila dichiarati ma in verità poche decine. Goal. Uno a zero per Jorge. Vajna ha perso, gli ebrei sono salvi.
E’ bastato un minuto, un guizzo dell’intelletto, la resistenza lucida e disperata di un uomo solo, per risparmiare migliaia di vite.
E’ questo il momento in cui tratteniamo il respiro, il momento in cui si realizza quella cosa molto rara, ormai, in teatro, che si chiama catarsi. E che in questo prezioso, onesto, appassionato lavoro succede più di una volta.

PERLASCA Il coraggio di dire no
Di e con Alessandro Albertin
Regia Michela Ottolini
Disegno luci Emanuele Lepore

Foto Domenico Semeraro