Credo anche in quello in cui non credo. Non fa parte delle mie esperienze, ma lo prendo in considerazione. Non lo prediligo, ma lo conosco. Non lo pratico, ma l’accetto. Difendo le mie predilezioni, ma non cado prigioniero di me stesso. Un conto è difendere le mie idee e un conto è non riuscire a mettermi in rapporto con l’altro. Un conto è avere un determinato punto di vista su una questione specifica e un conto è ignorare o disprezzare chi non la pensa come me o non  fa il lavoro come lo faccio io.

Quante diatribe. Ogni artista ritiene di fare il teatro: quello vero, quello giusto, il migliore di tutti e che tutti gli altri artisti dovrebbero fare, ma che non fanno perché sono imbecilli o incapaci. E’ evidente che un sistema teatrale è sano, se si fonda sulla dialettica tra tradizione e ricerca; se è costituito da tanti linguaggi, stili, poetiche, modi di fare teatro, che rispondono alle variegate oscillazioni del gusto.

In altri ambiti della vita sociale vale lo stesso ragionamento, ma la diversità non è acquisita come valore. E’ spesso motivo di rifiuto, di  discriminazione, di violenza. Nel terzo millennio - è inutile negarlo -, il diverso mette ancora paura. Il nostro Paese non sarà razzista, ma la paura dell’altro è largamente diffusa in tutti gli strati sociali. La paura ha poche parole e molti comportamenti, a cui spesso la ragione non sa dare spiegazioni. Le teorie rituali e consolatorie che contestualizzano l’errore dei pochi (non virtuosi) nel mare magnum dei tanti (virtuosi) - forse meno magnum di quanto si possa immaginare -, non mi convincono un granché,  perché ritengo che abbiano una base intenzionale mistificatoria. Il problema resta anche di fronte ad una minoranza che non apprezza la differenza, cercando di rendere riducibili valori opposti e contrari. La riducibilità invece di livellare la differenza, l’accentua. Invece di unire i cittadini, li divide. Invece di livellare gli uomini, ne marca la diversità. Il fine è la vittoria sull’altro, l’egemonia culturale, la difesa dei privilegi, l’esercizio del potere. In questo senso sul tavolaccio del teatrino quotidiano i politici si presentano senza ombra di dubbio come ‘grandi maestri di vita’! Il progetto di riscatto morale e culturale non li coinvolge minimamente. Il canovaccio è sempre lo stesso: l’avversario ha sempre torto: è un nemico: non fa niente di socialmente utile e se lo fa, bisogna negarlo. Possibile che l’avversario non ne azzecchi una? Possibile che non sia capace di fare una sola cosa buona? Allora è un fesso patentato. Se apprezzo ciò che è apprezzabile nell’altro o dell’altro, acquisisco credibilità, affidabilità, altrimenti la perdo;  ma la credibilità è merce rara in questa nostra epoca. Chi si pone come luce diventa tenebra.  

Che Paese è questo in cui viviamo? Un Paese attraversato da corruzione dilagante, contraddizioni sociali irrisolte, conflitti permanenti, omertà diffusa,  edonismo dilagante, materialismo sfrenato, ipocrisia, voglia di vincere sull’altro, esibizione del successo. Un Paese dove la politica non ha più etica, dove domina la cultura materiale, dove si ragiona sempre in termini di PIL e di consumi che devono crescere, dove lo sviluppo non coincide mai con un  progresso sociale. Quanto tempo dovrà passare perché le cose cambino? Chi sarà il dissoluto che compirà la prima mossa verso il superamento della precarietà e dello sgomento dilagante? Una cosa è certa: la  negazione - conscia o inconscia, manifesta o nascosta -, del valore della differenza genera la cultura dell’assoluto ideologico, il quale caratterizza sia i teatri della vita che la vita dei teatri.

Mario Fratti mi ha scritto questa lettera da New York.

Caro Alfio, grazie del libro (‘L’ombra di Dio’, trilogia di testi linguistici, n.d.r.). Sei sempre originale, ma… Qui l’avanguardia è morta. Siamo tornati al rispetto della parola, della chiarezza. (Alla Arthur Miller di “Tutti i miei figli”). Io ho successo proprio per quello: chiarezza assoluta. Hai letto i miei 22 testi italiani? Ho fatto leggere il libro a due registi italo-americani. Mi hanno chiesto se sono pazzo. Che sta succedendo in Italia? Il folle Berlusconi ha rovinato anche il teatro? Qui in America ti capiranno nel 2060. Sono in ritardo…Tanti cordiali saluti! Viva il teatro italiano! Ho altre tre commedie a N.Y (chiarissime) nel mese di ottobre.

Gli ho risposto con la lettera che segue.

Caro Fratti, ti ringrazio di aver letto il libro e di averlo fatto leggere a due registi, ai quali, però, vorrei dire che hanno esagerato a darti del matto, lasciando intendere che il vero matto era colui che aveva scritto quella roba. Non è come loro pensano. Nessuno è matto: non lo sei tu, non lo sono io e penso che non lo siano neppure loro, per  motivate ragioni che cercherò di comunicare.

Il respingimento violento suscitato dalle mie opere non dipende dallo scatenarsi di una follia individuale o da follia politica diffusasi come la peste con l’avvento di Berlusconi, il quale, in verità, mi è simpatico come il fumo negli occhi. Figuriamoci se la cultura del suo “fare” può essere all’origine delle mie opere. Non scherziamo. Il motivo che ti ha spinto a scrivermi che la comunicazione chiara (o “chiarezza”, come tu la chiami) è la fonte primaria del tuo successo, mentre la comunicazione oscura (che io prediligo, anche se non in termini esclusivi) sarà la causa del mio essere in disgrazia fino al 2060, è lo stesso che ha indotto i due registi a darmi, indirettamente, del matto.
Voglio dire subito che io scrivo testi linguistici con la speranza che possano durare nel tempo e non essere divorati dalla cronaca politica o sociale. Saranno compresi e messi in vita quando saranno compresi e apprezzati dai registi che Avranno avuto la bontà di leggerli. Anche nel 2080. Non è un problema, te lo assicuro. E non rappresenta, per me, alcun problema il fatto che tu e i tuoi amici registi abbiate una determinata predilezione drammaturgica ed io ne abbia un’altra. Voi rivolgete il vostro interesse al cosiddetto teatro di parola, mimetico, realistico o naturalistico – chiamatelo come volete -, che descrive e spiega tutto, anche quello che è indicibile e inspiegabile; mentre io prediligo il teatro della ri-creazione poetica della realtà nella prospettiva delle variegate forme di teatro totale fondate sulle miscele linguistiche eterogenee. Lo scarto tra una visione e l’altra non suscita in me alcuna sorpresa o sentimento di contrapposizione, tanto meno un oscuro processo di demonizzazione. Mi pare, invece, che nelle tue parole e nel comportamento dei due registi ci sia un forte disappunto razzistico.
Non esiste il teatro, ma molti teatri. (La rivista che ho fondato con Giorgio Taffon e altri amici si chiama Liminateatri, e sul tema del pluralismo delle forme teatrali ho scritto molti articoli). Ci sono tante drammaturgie per tanti teatri e per tanti pubblici. E’ così bello – bello perché vero - prendere atto della esistenza nel mondo di tante idee di teatro. Un sistema teatrale è vivo, autenticamente pluralista e fattualmente democratico quando offre una varietà di proposte artistiche e di modalità produttive. Dunque, evviva la varietà. Evviva la differenza.
Io, per esempio, non condivido la tua scrittura drammaturgica, ma so che è una delle drammaturgie esistenti: legittima, degna del massimo rispetto e della massima considerazione. Potrei benissimo recensire il tuo libro di commedie, come ho recensito con impegno e con amore professionale la raccolta di testi del comune amico Bernard. Se non lo avessi fatto con la massima attenzione, ma con la puzza sotto il naso, sarei stato un pluralista ipocrita. L’assoluto ideologico è uno degli errori umani più comuni di questi tempi, nel campo dell’arte come in quello della politica. Si comincia con qualche candida e periferica considerazione e si finisce per compiere il delitto culturale d’ignorare l’altro, facendo saltare dialogo, comprensione e accettazione della diversità. In definitiva, si finisce per non comprendere più la realtà.
Un testo linguistico non è apprezzabile soltanto se si fonda sui dialoghi e sulla “chiarezza” delle battute, ma anche se mette in preventivo un sistema variegato di segni – verbali e non verbali –, in una prospettiva d’intreccio tra comunicazione chiara e comunicazione oscura. Sono ben altri gli elementi costitutivi di un’opera d’arte. Il discorso mi porterebbe lontano. Lo metto da parte per ribadire – al di là delle legittime e motivate differenze – che tu ed io possiamo leggerci. Forse, insieme, dovremmo dire che dobbiamo leggerci.  Certamente possiamo comprendere il lavoro che facciamo, e che – ciascuno a suo modo - facciamo anche bene. La questione, ovviamente, va al di là delle nostre persone: riguarda  tutti i veri artisti. Stare gli uni contro gli altri armati è un gioco che non m’interessa. Non ci sto perché non sono stupido. Sarò un drammaturgo matto, ma non sono un uomo sciocco.
E poi, se è vero (com’è vero) che l’uomo è a due dimensioni - materiale e immateriale, sensibile e razionale…-, la teoria e la prassi della dualità della natura e della cultura umana applicata alla scrittura drammaturgica non è conseguentemente una sciocchezza. L’uomo è una soglia: vi convivono valori opposti e contrari: bene e  male, luce e buio, verità e non-verità. L’uomo è portatore di cose visibili e invisibili, palpabili e impalpabili, il che pone un grande ed entusiasmante problema. Quale è la forma per comunicare l’indicibile, l’invisibile e l’impalpabile? Come si fa a dire l’indicibile? Certo non con la parola che spiega o che descrive, altrimenti l’indicibile non sarebbe più indicibile. Il mistero dell’uomo non sarebbe più mistero, ma chiacchiera. Da tali considerazioni nasce il mio interesse per la comunicazione chiara e per la comunicazione oscura. Le utilizzo tutte e due secondo le necessità artistiche. Proprio in questi giorni ho finito di scrivere un libro che ha il titolo ‘La luce dell’ombra’. Non è un caso. Chi cerca la luce trova la metafisica della luce, trova l’abbaglio dell’assoluto ideologico. Chi cerca l’ombra e la tenebra forse trova alcune scintille di luce: il che non è cosa di poco conto. Queste cose – e molte altre - dovrebbero essere dibattute nelle università americane. Si raccoglierebbero molti consensi e forse si darebbe uno stimolo al rinnovamento. Quando venni a New York con Favola d’amore scrivesti che l’avanguardia veniva dall’Italia. Apprezzai molto la tua opinione, anche se ritenevo (e ritengo) che ci fossero (e ci siano) avanguardie di grande interesse non solo in Italia, ma anche in molte altre parti del mondo. Adesso, anche se in minima parte, non la rappresento più? Beh, preferisco essere considerato un folle che un artista di avanguardia. Perché? Perché in questo mondo di letame e di monnezza, che si considera civile, troppo civile, c’è bisogno di folli luminosi: c’è bisogno di un teatro incivile per un paese incivile. Se nel mio piccolo passo per essere un folle non posso che esserne soddisfatto. 
Molto di quello che so fare adesso lo devo ad uno dei miei maestri: Franco Rella. Un grande pensatore. Voglio riportare alcune frasi della sua opera ‘Le soglie dell’onmbra’. Sono certo che il suo pensiero non darà origine ad un altro banale caso di follia, ma, al contrario, contribuirà ad alimentare un franco  e rispettoso dialogo.
“La meraviglia - scrive Franco Rella nel suo straordinario libro -, non nasce dalla presenza nella realtà soggettiva e oggettiva di elementi che sfuggono all’ordine del sapere, elementi che potrebbero essere comunque, nel progresso del sapere, ricompresi al suo interno. La meraviglia nasce dal fatto che da questi elementi può emergere l’ipotesi che nel sapere  stesso vi sia oscillazione e incertezza. Colli ha detto che la filosofia nasce dall’enigma. Ma l’enigma contiene in sé, sempre, l’elemento che ci porta alla sua soluzione. Per questo Colli, pur nell’audacia  delle sue ipotesi, rimane sempre all’interno della linea tracciata da Aristotele. Ma noi sappiamo che nella nostra vita procediamo lungo tortuosi labirinti; che abbiamo incontrato, che incontreremo Minotauri. Il mistero sta nelle cose che ci circondano, sta, oltre la cosa, dentro di noi, nello specchio della nostra intimità, quando sulla sua superficie ora opaca e ora iridescente vediamo apparire ombre. Siamo in un vicolo cieco? Simone Weill ha scritto che  la nostra mente si trova talvolta di fronte a problemi che non sono risolvibili. E’ proprio questa nozione di ‘vicolo cieco’ che ci avverte che siamo di fronte ad una porta. Aprirla in altro modo che mantenendo il mistero che ce l’ha scoperta, il mistero della contraddizione insolubile, dell’unione dei contraddittori che non si possono ma si debbono pensare insieme, è, dice Simone Weill, ‘menzogna’. Il vicolo cieco  del mistero non è dunque un buco nero, l’implosione del senso, la perdita del mondo e del soggetto. E’ l’affacciarsi di una verità di cui non possiamo tracciare netti contorni, ma di cui non possiamo fare a meno”. E più avanti Rella riconosce e definisce “l’ombra” come “la tensione tra il si e il no, e lo spazio che si apre in questa tensione. Il sì e il no sono appunto, in questo caso, le contraddizioni insolubili. Si e no,  bene e male. Quando la tensione fra il si e il no viene risolta;  quando uno solo dei due poli della contraddizione sopravvive, ciò che viene annientato è l’uomo stesso. E’ questa tensione, infatti, che costituisce  la verità dell’uomo, del suo essere nel mondo, del mondo stesso”. Caro Mario, stai bene. A presto.
Cari amici lettori, mi piacerebbe conoscere la vostra opinione su questa querelle. (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).