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Avevamo conosciuto questa figura ancestrale grazie ad uno degli spettacoli della trilogia firmata dall’attrice sarda, ma ormai “napoletanizzata”, Alessandra Asuni. Lo spettacolo in questione era appunto “Accabai” in cui il rito della nascita e della morte, così come della vita, diventa momento fondamentale della poetica sacro/profana dell’attrice. Dalle cripte e dai sotterranei della città partenopea, location amate dalla Asuni per mettere in scena i suoi “riti” teatrali, stavolta passiamo al noto palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli, che ospita, dal 15 al 17 dicembre, il racconto di Michela Murgia. Attraverso la lettura del romanzo vincitore del Premio Campiello 2010, Carlotta Corradi crea la drammaturgia, interpretata dall’attrice Monica Piseddu e diretta dalla regia di Veronica Cruciani. Cast, dunque, interamente femminile, così come i personaggi descritti all’interno di questo racconto teatrale che riporta i consueti topoi legati alla nuova drammaturgia del Sud, ossia il trasferimento al Nord, il racconto a ritroso, il concetto di famiglia smembrata, l’attaccamento ai valori del passato e alla terra, ormai in decadenza o dissolti. Dopo aver analizzato la messinscena della drammaturgia siciliana della

compagnia Vucciria Teatro e del calabrese Rosario Mastrota e della Compagnia Ragli, passiamo alla Sardegna, concludendo un lungo anno durante il quale l’attenzione nei confronti dei nuovi autori, soprattutto meridionali, è cresciuta notevolmente. Il racconto della Murgia, adattato drammaturgicamente dalla Corradi, descrive la storia di una giovane sarda, Maria, affidata a soli sei anni ad una sorta di “tutrice”, Bonaria Urrai, e rifiutata, o meglio, messa da parte, dalla madre naturale, impegnata e interessata a crescere le altre figlie. Il racconto è costruito a ritroso: il ritorno della giovane dal Nord, richiamata dalla notizia della malattia e dell’agonia della tutrice, è fissato su una scena onirica, quasi immaginaria, che ricorda l’aridità della campagna sarda e, metaforicamente, la funzione atavica della donna. Quest’ultima, generatrice di vita, può diventare, secondo alcune culture, anche artefice di morte: ecco, dunque, la funzione dell’accabadora, colei che uccide i malati terminali e aiuta i moribondi nel passaggio dalla vita alla morte, compiendo anche omicidi. Il riferimento alle recenti questioni legate al potere decisionale del malato nei confronti della propria morte è evidente, ma l’atteggiamento della protagonista, legata ad una mentalità lontana da quella antica, si trasforma nel corso del racconto. Originale appare, dunque, la scelta di collocare un muro grigio sul fondo della scena – sebbene risulti superfluo l’utilizzo di proiezioni su di esso – dalla cui fessura l’attrice preleva degli indumenti. La svestizione della donna emancipata, che all’inizio dello spettacolo indossava zainetto, jeans e maglietta, si tramuta in vestizione con abiti tradizionali; l’attrice emaciata rimane in scena, a lungo, indossando solo una sottoveste, elaborando una trasformazione visiva in cui entrano in gioco le consapevolezze sopite e poi riemerse. La nudità nasconde la riflessione: la ragazza scopre la vera attività della tutrice e il dolore della scoperta la spinge all’allontanamento e al rifiuto di una tale notizia. La rabbia nasce dalla consapevolezza che la morte di un caro amico di famiglia fosse legata, in passato, all’azione dell’accabadora, cioè all’attività della stessa Bonaria Urrai. La “Tzia”, come viene definita affettuosamente dalla protagonista, adesso deve fare i conti con la propria morte e l’invito rivolto alla figlia “adottiva” è finalizzato ad unico scopo. La trasformazione e la riflessione dell’attrice si evolvono, drammaturgicamente e scenicamente, attraverso un dialogo immaginario con la donna in agonia, il cui respiro e la cui presenza sono riprodotti sonoramente ed immaginati dal pubblico. Il confronto, in realtà, appare tra la protagonista e se stessa, poiché deve affrontare il suo inconscio, il suo passato, la sua paura della morte che rappresenta, quest’ultima, anche evoluzione e cambiamento. L’interpretazione della Piseddu è intensa in alcuni momenti, ma delude in altri, rivelando al pubblico una grande sofferenza interiore, probabilmente reale o dettata dall’interpretazione di un dolore così forte. Emergono ripetutamente – almeno durante la seconda replica - difficoltà nella memoria e alcune ingenuità recitative, inaspettate davanti ad un’attrice di grande valore come la Piseddu. Il racconto scenico, che raramente, tranne per i nomi citati e per i brevi modi dire, utilizza la lingua sarda, è profondamente legato alla natura propria del romanzo, dilungandosi, a volte, in momenti eccessivamente narrativi e poco teatrali. Emergono, inoltre, alcuni passaggi caratterizzati da una certa intensità dolorosa che colpisce fortemente il pubblico, così come le copiose lacrime della protagonista. L’autrice del romanzo sottolinea che il lavoro drammaturgico della Corradi si orienta verso un’osservazione della donna ormai adulta, rispetto a ciò che il romanzo riporta, ossia il punto di vista di Maria ancora bambina: in effetti questa tendenza emerge fortemente in scena, spostando l’attenzione dal concetto di maternità perduta all’immagine di una donna cresciuta e non ancora madre, alla quale viene richiesto di mettere in atto le sue potenzialità generatrici di morte. Maria, dunque, diventa accabadora per volere di una madre acquisita, recuperando il connubio antico e indissolubile tra amore e morte.

Foto di Marina Alessi

ACCABADORA
Teatro Nuovo – Napoli
15-17 dicembre 2017
Compagnia Veronica Cruciani, Teatro Donizetti di Bergamo, CrAnPi
presentano
Accabadora
dal romanzo di    
Michela Murgia
drammaturgia    
Carlotta Corradi
con
Monica Piseddu
scene e costumi    
Barbara Bessi
 luci
Gianni Staropoli
suono
Hurbert Westkemper
video
Lorenzo Letizia
foto di scena    
Marina Alessi
realizzazione scene    
Antonio Belardi
decorazione scene Giada Podestà
assistente alle luci    
Raffaella Vitiello
assistenti alla regia    
Giacomo Bisordi, Mario Scandale
regia
Veronica Cruciani